SULLE DISAVVENTURE DELLA MEMORIA
Ci sono accadimenti che per il fatto di trovarsi già di per sé ai margini della vita culturale destano limitato interesse, sebbene la loro portata sia tutt'altro che insignificante. L'inversa proporzionalità tra la scarsa attenzione e il valore culturale li rende rappresentativi dell'ignoranza e della malafede che alimentano con robuste dosi giornaliere la mentalità nazional-popolare.
Si apprende così, da un articolo comparso qualche tempo fa sul sito del Centro Studi Libertari - Archivio Giuseppe Pinelli, che alcuni esponenti della commissione parlamentare cultura hanno richiesto di privare di ogni riconoscimento, e più prosaicamente del finanziamento pubblico, l'Archivio Storico della Federazione Anarchica Italiana. Per quanto sia scontato ravvisare il rozzo appiglio ideologico con il caso Cospito, il punto essenziale della vicenda lo pongono gli autori stessi dell'articolo chiedendo che tipo di storia si finirebbe a fare dando seguito a istanze di tal genere. Al che viene spontaneo interrogarsi ulteriormente sulla qualità della cultura storiografica che già da tempo si propina nel nostro paese.
In occasione del Giorno della Memoria, la senatrice Liliana Segre ha espresso la preoccupazione per il sentimento di noia, a suo dire diffuso, nei confronti della Shoah e il timore di oblio per le vittime dell'Olocausto. Non è a lei, che ha impresso nella carne quell'orrore, che va posta la questione del rapporto tra storia, memoria e coscienza civile e tuttavia la rievocazione che si ripete ogni 27 gennaio - e a calco il 10 febbraio per le vittime delle foibe - stride con l'intento dichiarato di tenere vivo il ricordo affinché ciò che è accaduto non si ripeta mai più. E stride non solo per il fatto che sotto i nostri occhi avvengono altri stermini, consegnati alla cronaca emergenziale o liquidati come malvagia follia, ma per la concezione stessa della storia che va in direzione opposta a ciò che vorrebbe ottenere: tanto più si celebra un accadimento, tanto più si svuota di senso e si riempie di retorica e forse è proprio questa asfissia del sentire che la senatrice Segre avverte malinconicamente come noia.
Senza bisogno di chiamare in causa lo scarto tra lo specialismo e la divulgazione, l'accostamento tra i due episodi segna la discontinua tra il sapere e ricordare qualcosa e il come si giunge al sapere e ricordare nell'intreccio di eventi, di appetiti e di contrasto tra le forze in campo che chiamiamo storia. La conservazione e lo studio dei documenti servono per l'appunto a rendere disponibile la più ampia conoscenza dei fatti del passato, anche di quello più recente, e con essa a nutrire la capacità di articolare la lettura del presente. È questione di metodo che non sarebbe incompatibile né con la divulgazione, né con l'intento di stimolare la forma mentis pubblica a cui si preferisce, invece, dare in pasto la versione emotiva dei fatti, già filtrata dal giudizio morale senza altre aggiunte.
Succede allora che il corpo sociale si ammala di fissità della memoria, una sindrome che sclerotizza o comunque rende labili le sinapsi che tengono integra la rete della consapevolezza civile, inibendo la capacità di intercettare la reale fisionomia degli eventi nel mentre accadono. La figura dell'Angelus Novus con lo sguardo rivolto alle tragedie della storia, che si può solo rievocare ma non riscattare, scorgerebbe oggi, nel presente, la stessa impossibilità di interrompere il suo scorrere rovinoso.
Non sembri inopportuno o irriverente riconoscere una simile matrice storiografico-commemorativa nelle giornate di sensibilizzazione per nobili cause - la giornata dell'acqua, la giornata della pace, la giornata della giustizia sociale, la giornata contro la discriminazione razziale e altre simili "rovine" in atto - la cui proliferazione sembra più adatta a stimolare il consumo d'occasione di prodotti culturali che ad esercitare un'autentica pressione sui principali attori del sistema economico globale. Le istanze di cambiamento rimangono così impigliate nella ricorrenza del giorno, ad usum populi - ma non di Davos - dopodiché, consumato il rito mnemonico, la ruota continua a girare come prima.
Ma non è questo l'unico mezzo di manipolazione della memoria, ci sono altre modalità che la rendono di fatto inerte. Fra queste non può mancare l'accusa di complottismo quando si cerca di scavare nelle ragioni meno ovvie dei fatti, con l'immancabile sottolineatura moralistica e l'invito stizzito ad attenersi al qui ed ora. Non c'è dunque bisogno di spiegare perché tra i guardiani dell'informazione suscita impazienza sentir dire che la guerra russo-ucraina ha alle spalle un focolaio iniziato nel 2014 se non prima; oppure, nel rimettere in fila le cause e gli effetti, notando che non è stata la guerra a provocare la speculazione sulle risorse energetiche ma la previsione dell'imminente conflitto (Talete docet!); o, ancora, che ci sia un legame, oggi meno facile da smentire per le note inchieste sui vertici della UE, tra i non-da-ieri consistenti finanziamenti di capitale privato all'OMS e gli indirizzi di politica sanitaria, compiacenti le corporation del farmaco - Pfizer su tutte. E si potrebbe continuare con altri temi caldi, dall'immigrazione alla crisi climatica, al debito pubblico e all'andamento dell'economia nazionale.
Niente di nuovo, certo: per costruire la memoria politicamente corretta la propaganda deve indurre con il medesimo zelo la dimenticanza. E una volta superata quella specifica esigenza di tacitare e reprimere, è impossibile tornare allo stato precedente. Il danno compiuto non si ripara e le convinzioni ormai sedimentate scoloriscono nell'indifferenza, tanto è il bisogno di non darne risalto, in particolare per chi le ha servilmente suffragate, quanto di dimenticarne il costo sociale. Il caso della pandemia ancora una volta torna utile a mo' di esemplificazione, così come la crisi energetica e prossimamente la guerra in corso. Come a dire: "acqua passata non macina più". Ma ciò che non deve macinare è la ricostruzione della realtà il più possibile corrispondente ai fatti in modo da intercettarne per tempo le dinamiche quando si ripresenteranno in altre forme e in altre circostanze.
I recenti fatti del liceo fiorentino, che hanno riportato in auge il riflesso condizionato del pericolo fascista, sono una chiara testimonianza della dissonanza cognitiva in cui siamo finiti, ma non da quando si è insediato nel Paese un governo di destra, bensì da quando si è smesso di riconoscere e di contrastare da sinistra l'evidente matrice dell'autoritarismo il libera uscita, veicolato con la politica tecnosanitaria e proseguito con le smanie della belligeranza, in spregio della Costituzione. Questo tradimento reiterato della Carta, che fu concepita in nome dell'antifascismo, ha riaperto la strada a ciò che voleva sconfiggere. Un altro "mai più" smentito da una coscienza civile offuscata dalle sopraffazioni del bio-tecno-autoritarismo che lo hanno preceduto.
Secondo una tesi storica consolidata, il fascismo non è mai stato davvero superato giacché è mancata una vera rielaborazione della memoria nazionale. Lo spiega molto bene Francesco Filippi in Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto (2020) documentando la continuità nei corpi dello Stato, e dunque nella linfa della vita pubblica, della presenza di esponenti di prima linea durante il ventennio. Il far finta di nulla è uno dei dispositivi della dimenticanza che può tornare sempre utile. Un esempio farsesco è quello messo in scena nell'ingombrante manifestazione sanremasca di propaganda, quale goffo e imbarazzante tentativo di pacificazione nazionale, in cui la Costituzione, per l'appunto, è stata magnificata da un guitto: cioè per finta.