IL VITTIMISMO DEI FORTI
L'immagine di Benjamin Netanyahu dinanzi all'assemblea generale delle Nazioni Unite, mentre mostra le tavole del futuro assetto del Medio Oriente, racconta molto più di quello che appare. Poco importa se in molti hanno abbandonato l'aula al suo ingresso, dal momento che il messaggio del premier israeliano, giunto appositamente al Palazzo di Vetro per affermare nientemeno che la verità, è stato pronunciato con assoluta e consapevole determinazione affinché il mondo intero ne fosse, per così dire, informato. E affinché gli stessi israeliani insieme agli alleati storici fossero rassicurati sul fatto che nessuno d'ora in avanti potrà dirsi ignaro.
L'efficacia oratoria, tuttavia, non è tutta farina del sacco di Bibi: la diade maledizione-benedizione pronunciata per descrivere l'alternativa tra un Medio Oriente ad influenza iraniana e l'auspicata prospettiva di annientamento della Repubblica Islamica, discende direttamente dalle Sacre Scritture, in particolare dal Deuteronomio (11, 26 e 31): "Vedi, oggi io pongo innanzi a voi benedizione e maledizione: benedizione se obbedirete ai precetti di Jahveh vostro Dio che oggi vi prescrivo; maledizione se non obbedirete ai precetti di Jahveh vostro Dio e devierete dal cammino che oggi vi prescrivo, seguendo altri dèi che non avete conosciuto ... Voi, infatti, state per attraversare il Giordano per entrare in possesso della terra che vi concede Jahveh vostro Dio: ne prenderete possesso, dimorerete in essa e baderete di eseguire tutti gli statuti e i decreti che oggi espongo a voi." Con un forte impatto simbolico, il Mosè redivivo, mostrando le nuove tavole della legge, ricorda al suo popolo e intima alle altre comunità l'obbedienza alla parola di Dio, unica e legittima oltre ogni giurisdizione e ordinamento politico diversamente fondato. Del resto, il popolo eletto che ha fra le sue aspirazioni quella di rappresentare una luce morale e spirituale per tutte le nazioni, non si è dotato in Israele di una costituzione in senso moderno, ritenendo sufficiente suffragare il proprio diritto a quella terra in prima istanza con il dettato delle Sacre Scritture e tuttalpiù, in seconda battuta, con la dichiarazione di Balfour con cui la Gran Bretagna, pur con le ambiguità e i temporeggiamenti, ha donato ai sionisti un territorio non suo a spese delle popolazioni arabe della Palestina.
Da occidentali facciamo fatica, per ragioni insite alla nostra mentalità, a credere al peso politico della componente biblica per l'ebraismo sionista che, di contro, nella sua configurazione di stato moderno e tra i più avanzati tecnologicamente, appare assimilato in mimetica continuità con la compagine delle cosiddette democrazie occidentali sulle quali le ricadute ideologiche rimangono sottotraccia. Questo aspetto può apparire marginale, perché alla fine quel che conta è la convergenza degli interessi materiali e geopolitici del tandem israelo-statunitense con a rimorchio l'Unione Europea; interessi che pongono la "grande alternativa" tra la Via del Cotone e la Via della Seta o aulicamente tra the curse and the blessing oppure in versione tragicomica tra il condizionatore e la pace, giacché la crisi mediorientale e la guerra russo-ucraina si trovano sulla stessa linea di faglia.
Guardando solo alla sostanza, tuttavia, si trascura un aspetto di rilevante spessore qual è il nesso tra l'ideologia laica dell'occidente, erede dell'Illuminismo, e la natura teocratica e fondamentalista dello Stato di Israele con tutto ciò che ne consegue e che vediamo accadere sotto i nostri occhi. La questione non è secondaria perché se da un lato l'opinione pubblica viene ogni giorno umiliata, tradita o ignorata dalla pessima qualità dell'informazione; se districarsi nel dedalo di menzogne, di omissioni e, al primo cenno di dissenso, di accuse di connivenza col nemico allora, pur convocando tutta l'ipocrisia di cui si è capaci, ciò significa che si è verificata una metamorfosi, o meglio una conversione delle società secolari a ideologie para religiose, fondate su verità rivelate e tipicamente manichee, che rimandano alla radice vetero testamentaria sulla quale il sionismo insiste.
Secondo alcuni interpreti, il fondamento teocratico di Israele spiegherebbe il motivo della rinuncia degli ebrei della diaspora a fare ritorno nella terra promessa, mal sopportando l'ingerenza e il peso che vincola lo stile di vita individuale all'osservanza stretta dei precetti religiosi della Torah. In altro contesto, l'esempio per noi più eloquente è l'imposizione del velo nelle società islamiche, accusate di fondamentalismo ad ogni piè sospinto. Tuttavia, l'obbligo ebraico non è da meno, se diamo credito a fonti religiose puriste secondo cui seguire le prescrizioni al di fuori o all'interno della terra dei padri ne cambia il valore. E questo la dice lunga sul forte condizionamento che lavora nel retroscena politico. Il modello egemonico teocratico entra dunque come sottotesto nel discorso del sionista Netanyahu alle Nazioni Unite, per ciò che dice, per come lo dice e per la rappresentazione che ne dà e che già da tempo è stato assimilato dai chierici occidentali difensori della causa sionista.
La negazione della storia è il pilastro sul quale poggia questo genere di propaganda e l'uso assimilato, anche dalle società secolari, della teologia come politica. Lo testimonia il carattere di fissità di matrice biblica con cui vengono interpretati alcuni eventi epocali mediante una tecnica comunicativa che anche il mondo occidentale ha imparato a maneggiare. Il dispositivo chiave è la creazione del nemico, apparso d'improvviso come un cigno nero, che minaccia la sopravvivenza del migliore consorzio umano, costretto a muoversi all'attacco per il bene dell'umanità intera. I forti, i potenti, i migliori appunto, diventano improvvisamente vittime di un fatto inedito ed emergenziale. Di minacce e di emergenze, infatti, dopo l'attentato alle torri gemelle, ne stiamo collezionando una sequela, come pure di emergenze: finanziaria, sanitaria, climatica, economica, psicologica e via dicendo. Tratto comune a questi "fatti" è la presunta assenza di un pregresso storico e il divieto di ricostruirne l'accaduto ingessando la versione ufficiale contro le fake news, espressione moderna per designare non il complotto ma il tabù, in ossequio al settarismo religioso e ormai anche politico e culturale. Anche la pratica della cancel culture e del politicamente corretto si radicano in questa forma di vittimismo rovesciato.
Il raid del 7 ottobre non rappresenta un'eccezione allo schema descritto, con gli inquietanti chiaroscuri sull'intelligence israeliana che lo hanno preceduto e la violenza fuori misura della reazione di Israele: dal massacro e l'espulsione dei palestinesi, alle aggressioni all'Iran, all'invasione del Libano fino all'intimidazione alle forze dell'ONU affinché sgombrino il campo al diritto di Israele a difendersi. C'è però in tutta questa vicenda che di storia alle spalle ne ha tanta e controversa, un fattore ulteriore che va menzionato infrangendo il tabù più pericoloso: l'immunità morale e materiale perpetua concessa ad Israele in nome dell'Olocausto. Un fattore che ha funzionato per la coscienza occidentale come matrice, veicolo e giustificazione di ogni vittimismo, ma soprattutto come reazione e come trappola. Ma di fronte all'insostenibilità di ogni difesa pregiudiziale e ad oltranza possiamo invece chiederci, oggi, se sia lecito che il genocidio degli ebrei si trasformi nella pretesa al diritto dei sionisti ad esercitare la violenza contro tutti? Una risposta per uscire dalla trappola di questo terribile tabù che tiene in scacco la politica internazionale e il destino di tutti, arriva proprio da un ebreo, Bertell Ollman, autore della "Lettera di dimissioni dal popolo ebraico" (Antiper, 29 giugno 2024). Ollman racconta che la madre di Joe Murphy, ex vicecancelliere della City University di New York, così parlava al figlio: ci sono due tipi di ebrei, quelli che di fronte all'Olocausto hanno giurato che avrebbero fatto tutto il possibile perché l'orrore non si ripetesse mai più per il popolo ebraico; e quelli che avrebbero fatto qualunque cosa in loro potere perché niente di simile accadesse mai più a nessun popolo e in nessun luogo. La promessa che in quella circostanza la madre chiedeva al figlio era di appartenere per sempre agli ebrei del secondo tipo.