Aldous

Totalitarismo compassionevole

IL RATING DELLA VITTIMA

Per chi vive la filosofia anche come il tentativo disperato ma necessario di afferrare il presente esistono dei momenti filosofici. Sono quei momenti in cui ti accade o vedi qualcosa che ti chiarisce il mondo in cui vivi, più spesso sono frasi o dialoghi con persone che non fanno filosofia, spesso persone semplici che, non essendo interessate ad elaborare i messaggi che il mondo lancia loro, non fanno ad essi alcuna resistenza e ti mostrano lo spirito dei tempi in modo diretto e incontrovertibile, perfino crudi. Costoro sono – direbbe Ortega – come todo el mundo e dunque sono loro stessi a svelartelo, il mondo. I libri di Anders (sempre sia lodato!) sono, ad esempio, pieni di questi momenti di epifania.  

In questo caso, però, la rivelazione mi è giunta attraverso una giovane e intelligente (o meglio intelligente ma giovane) studentessa di filosofia. Tutt’altro che un’integrata occupata a tradurre in applicazioni i diktat del sistema in festante attesa di uno zuccherino metaforico, invece una ragazza capace di scelte coraggiose e minoritarie. Proprio per questo, una sua frase (che mi ha fatto orrore) si è stampata come vero signum dei nostri tempi giacché, ho realizzato, sta alla base non solo del pensiero di chi dà corpo alla macchina delle emergenze (penso ai ragazzi di Ultima generazione) ma persino in chi con giusta diffidenza guarda al succedersi circense degli eventoidi contemporanei.

Grazie a questa frase ho capito definitivamente perché sono e resterò novecentesco. Magari un tardo novecentesco, un novecentesco epigonale se si vuole, ma che declina neppure troppo gentilmente l’idea di entrare nel Coraggioso mondo nuovo. In un’epoca in cui si lotta per il diritto di stare dove si vuole sarebbe bello rivendicare il diritto di stare quando si vuole, di scegliersi il proprio tempo, di accettare delle forme ragionate di obsolescenza e non correre legato dietro il carro della contemporaneità.

Il concetto che mi ha convinto a farmi renitente alla contemporaneità è quello di ritenere che la gravità di un’offesa o di un comportamento dipendano dallo status vittimale di chi la perpetra. La frase è apparsa con assoluto candore nella conversazione: un’offesa che un nero fa a un bianco – mi è stato detto - non è paragonabile alla medesima offesa detta da un bianco a un nero. Il ruolo vittimale del nero gli consente un margine più ampio di offesa. In questa implicita convinzione c’è tutto il nuovo secolo e la matrice di parte della attuale follia.

La quantità di errori e disgrazie che discendono da questa idea è enorme. Si potrebbe persino dire che tutti i mali attuali derivino da essa e dai molti che non sanno di averla in testa ma la agiscono. Analizziamo la questione: l’idea che un nero, un ebreo, un omosessuale, una donna abbiano un diritto di offendere e di offendersi superiore a quella di un caucasico, di un cattolico, di un eterosessuale, di un uomo implica l’abbandonarsi a una ontologia tribale. Io non sono Davide Miccione ma sono un bianco eterosessuale, non rispondo di me stesso ma del mio gruppo di appartenenza che si è deciso abbia con tutta evidenza una, per dir così, consistenza ontologica superiore alla mia. Sono prigioniero del mio gruppo e qualsiasi scelta io faccia non può farmi scappare da esso a meno che non riesca a produrre in me un cambiamento in grado di farmi iscrivere di diritto in un gruppo “vittimalmente” adeguato, anch’esso ovviamente più “esistente” di quanto lo sia io. I diritti individuali diventano quindi operativi solo come manifestazione dei diritti tribali del gruppo vittimale di appartenenza e il mondo diventa una prigione identitaria a cielo aperto in cui l’unico modo per uscire dalla prigione caucasica è entrare in quella ebraica e così via. Si può spiegare in questo senso, ad esempio, la continua produzione di sub categorie della comunità lgbtq, alcune delle quali francamente cervellotiche. Questa sub-speciazione artificiale serve a mostrare che fuori dall’ontologia tribale non è possibile andare giacché la comunità lgbt eccetera è in grado di assicurare a tutti l’ingresso organizzato e collettivo allo status vittimale.

Di passaggio va fatto notare che, instaurata l’ontologia tribale, la storia diventa il luogo dove si è ottenuto il rating vittimale o il meno desiderabile rating di carnefici. Ecco apparire così la storia come a-storia del moralismo cioè la cancel culture, tribunale a-storico dove si attribuiscono punteggi di moralità alla storia. Il privilegio vittimale dà vita ad una gara di accreditamento vittimale fino a giungere a una sorta di mastra nobile delle vittime il cui accesso è necessario per ottenere i privilegi del caso. L’accreditamento viene fornito dal sistema dello spettacolo integrato dell’informazione prevalente e dal clero degli intellettuali (Preve docet) e chi non ha sponsor di rilievo economico-politico pur disponendo di un palmares di soprusi di un certo peso non ha speranza alcuna di entrare (si pensi all’invisibilità assoluta dei danneggiati da vaccino). 

Il rating vittimale (come per i crediti di carbonio) autorizza una certa franchigia per gli atti intolleranti, una sorta di immunità. Dunque un convegno di cattolici tradizionalisti sulla transizione di genere interrotto da attivisti lgbtq può essere con qualche contorsione inserito nel sacrosanto diritto alla protesta mentre l’inverso sarebbe un intollerabile segnale di ritorno del fascismo e dell’omofobia.

Una ovvia conseguenza è costituita dalle fasce deboli di quei gruppi che si è deciso facciano parte dei carnefici e mai delle vittime e per questo si sentono non riconosciuti nella propria reale condizione iniziando un percorso di avversione nei confronti delle “vittime riconosciute” e risentendosi per la disparità di trattamento. Un esempio tipico è un maschio eterosessuale, poco istruito, con un lavoro a basso reddito abitante di quartieri popolari che viene indicato come carnefice ed escluso dal ranking vittimale pur subendo tutta la violenza della società del tardo capitalismo. Il suo risentimento viene allora intercettato da partiti che non hanno soluzioni politiche ma che offrono la consolazione del riconoscimento e autorizzano il risentimento (Il fronte di Le Pen in Francia o la Lega in Italia sono un ottimo esempio). L’appartenenza al ranking vittimale e i connessi privilegi diventano così una sorta di spinta implicita a farsi carnefici nei confronti di chi ne è fuori in modo da creare un circuito di auto-accrescimento del sistema.

La necessità vitale di accrescere il prestigio del proprio status vittimale influenza tutta l’informazione mainstream. Si noti ad esempio come, fin dall’inizio della guerra russo-ucraina, il sistema informativo abbia ripulito la storia recente dell’Ucraina per poter costruire un profilo adatto a una posizione di rango nel rating vittimale obliando gli atteggiamenti e le azioni di quella che non era sino ad allora propriamente la più pacifica e democratica delle nazioni. L’idea di uno scontro tra due carnefici, più verosimile oggi e in generale nella storia umana, non è accettabile per l’epoca del rating vittimale.

Il circolo vizioso, dissimulatore e bellicista del sistema del rating vittimale ha la sua vetta negli israeliani (che con un primo ambiguo passaggio cercano di farsi sineddoche, la parte per il tutto, del complesso mondo ebraico) che vigilano linguisticamente e politicamente affinché la loro posizione in vetta al ranking, di cui rappresentano il benchmark, non venga insidiato da alcuno. L’attenzione con cui vigilano che non vengano mai estesi gli usi linguistici di olocausto o genocidio di cui pretendono il monopolio ben spiega la follia di questo secolo dove il popolo che dovrebbe farsi rappresentante e bandiera di tutte le vittime dei carnefici della storia (rappresentanza di una ben folto e antico gruppo che inizia probabilmente dai Neanderthal e passa per i nativi americani) sgomita per seminare il resto della compagnia e mantenere il proprio AAA nel ranking. Come ben si vede dalla recente vicenda palestinese e dalle modalità della sua copertura mediatica la vetta del rating consente una franchigia enorme nel potersi fare carnefice.

Il Novecento così ci saluta con la sua dialettica servo-padrone, foriera di stragi e oppressione ma anche di emancipazione individuale e collettiva, ci appare il Duemila con la sua dialettica vittima-carnefice che ci rende buoni a nulla ma capaci di tutto, inabili all’empatia ma ossessionati dall’inclusione. Paradossalmente una de-escalation avrebbe bisogno di una nuova centratura sui diritti individuali ma proprio chi ha creduto di più alle meraviglie dalla dialettica servo-padrone oggi vigila stolidamente affinché i diritti individuali vengano dopo (se vengono) quelli collettivi o pensa di stare vigilando sugli individuali mentre rafforza soltanto i diritti tribali serviti secondo l’ordine del rating vittimale. Si pensi ai vari decreti che condannano i crimini omofobi o antisemiti cercando di sganciarli rispetto ad atteggiamenti similari ma fatti alle vittime non appartenenti al ranking vittimale. Sempre meno importante e impattante la molestia, lo stupro, le percosse, l’omicidio e sempre più importante i soggetti che lo subiscono: uomo o donna? Eterosessuale o omosessuale? Nero o caucasico?     

Nessuno sembra rendersi conto, dimenticando che la dimensione del collettivo si dà ormai solo come ontologia tribale, di stare cibando non il proprio cane ma il lupo che lo sbranerà.