LA LIBERTÀ DI ALCUNI
Vivere da paria in una società che sembra promuovere l’accoglienza e l’integrazione è un’esperienza degna di nota, soprattutto se tale status deriva dall’esercizio di quella stessa libertà di pensiero che fino a poco prima connotava l’appartenenza a cerchie culturali vivaci e significative.
Che pensare criticamente fosse un mestiere pericoloso, si poteva intuire da tempo; eppure lo choc per la rapidità con cui si è passati dalla profilassi all’esclusione resta innegabile e solo a fatica si può tentare di integrarlo nel nostro comune vissuto di animali sociali. Più ancora, se possibile, sconvolge l’assoluta cecità, rispetto a tale fenomeno, di molti compagni di viaggio, inspiegabilmente incuranti dello stato delle cose che, nella migliore delle ipotesi, registrano passivamente, mentre nella peggiore appoggiano; persone che, senza apparente disagio, o hanno distrattamente integrato una narrazione lacunosa, ossessiva e spesso illogica senza lasciarsi adombrare dal benché minimo dubbio, o l’hanno tacitata sotto l’effetto di magniloquenti idee affastellate in forma di ideologia: il bene comune, l’appartenenza, l’etica sociale, la responsabilità, il rispetto, la mutua assistenza. Sia chiaro: tutti principi elevatissimi e condivisibili (oserei dire, anzi, senz’altro condivisi, almeno dai ‘paria’ che conosco io). Ma se i principi sono condivisi, dove sta il nodo che separa gli uni dagli altri?
Tornerò in seguito sulla questione, perché è prima necessario completare il quadro aggiungendo l’ampia fetta di chi è stato costretto a ingurgitare, obtorto collo, la narrativa pandemica piegandosi ai diktat ministeriali pena la perdita del lavoro e di altri diritti-doveri primari (la possibilità di curarsi, di accudire i membri fragili della famiglia - ospiti delle RSA, di reparti ospedalieri –, di dar da mangiare ai figli, di accedere all’istruzione e alla formazione; e il tristo elenco potrebbe continuare). Di queste persone, ‘supergreenpassate’ per necessità e non per scelta, occorre tener conto nell’analisi del dato percentuale - altissimo - di chi si è adeguato alla normativa. Ne consegue (con buonissima approssimazione) che quell’obbligo surrettizio dovrebbe pesare come un macigno sulla coscienza di tutti coloro che l’hanno supportato, dai ministri ai solerti cittadini, dimentichi del fatto che la libertà di cui i concittadini venivano privati era il frutto di lotte durissime che solo un’evidente contraddittorietà può celebrare mentre distoglie lo sguardo da chi ne chiede un’applicazione attuale coerente; e peggio ancora è chi ha considerato gli obiettori di coscienza come vili profittatori che si servivano alla mensa comune senza pagare il conto o alla stregua di devianti cui è accettabile somministrare – in modo paternalistico - le opportune correzioni. Si sta forse auspicando il ritorno dello Stato etico? Da quando la repressione del dissenso e della critica ha smesso di essere un pessimo esercizio di democrazia? Ammesso - ovviamente - che il concetto di democrazia contempli ancora la tutela delle minoranze: e, di questi tempi, tale dubbio non pare affatto peregrino. Foucault ha ancora qualcosa da insegnarci, sembra. Eppure - come segnala anche Roberto Esposito in un suo recente volume - al tempo della geopolitica Foucault viene tacitato, in quello che sembra a tutti gli effetti un collettivo sforzo immunitario.
Essere un paria in questa società ha tutti quei significati che un’intelligenza media riesce a cogliere con una banale analisi: esclusione sociale, oneri accessori di spesa (tamponi, spedizioni e altro), discredito pubblico. Per questa ragione, ometterò le linee teoriche che disegnerebbero l’ovvio per lanciarmi sul sentiero del vissuto quotidiano; se il lettore vorrà, potrà fare il semplice esercizio di “mettersi nei panni di” e saggiare, per via empatica, il gusto dell’esclusione. Non stabiliremo nemmeno il perché il nostro ipotetico anti-eroe non sia ‘in regola’: di fatto, le sue ragioni non importerebbero a nessuno.
Immagini dunque, il gentile lettore, di voler fare una piccola gita domenicale: non essendo supergreenpassato, non potrà prendere il treno, non potrà salire su autobus, tram, traghetti o entrare in un bar per scaldarsi o in un ristorante per mangiare qualcosa; se per caso le condizioni fisiologiche gli imponessero un accesso al bagno, sarà bene che abbia in tasca la mappa dei bagni pubblici o dei supermercati (dove il paria avrà libero accesso) perché, anche in caso di inappellabile urgenza, non potrà servirsi dei bagni di un semplice bar (di fatto preclusi: molti italiani – non tutti, per fortuna - sono campioni di eccellenza nell’applicare gli ordini senza discutere). Non potrà visitare i musei, non potrà entrare alla posta o in banca per qualsivoglia ragione; se fosse costretto da un imprevisto a fermarsi in loco, non potrebbe trovare alloggio; se dovesse aver bisogno di un intervento medico, potrebbe trovarsi davanti qualcuno che gli chiede pesantemente conto dell’omissione di cui si è macchiato; se poi per caso la sua condizione di paria divenisse palese, dovrebbe mettere in preventivo – in crescendo – la disapprovazione silenziosa, il passo indietro del suo interlocutore (per sfuggire al virus, anche qualora il virus non ci fosse: la cautela non è mai troppa!), l’aperta disapprovazione, il dileggio, la pubblica gogna, l’allontanamento coatto, gli insulti, la violenza verbale e fisica. Il tutto, con garanzia statale di assoluta liceità, se non con l’aperta sollecitazione a procedere. Nulla conta se si è in perfetta salute, se per tutta la vita si è stati cittadini modello, se si sono sempre pagate le tasse, se si è fatto volontariato, se si è stati impeccabili professionisti, se si è goduto di credito sociale o politico, se si è fatta professione di valori indubitabilmente democratici e oblativi e se si è testimoniato con la vita tale scelta: di fronte all’assenza del super green pass, tutto questo non conta più. Il passaggio dal Bene al Male Assoluto è subitaneo e senza appello. Persino se si è avuta la malattia o ci si è vaccinati e si ha un numero esorbitante di anticorpi circolanti, dopo sei mesi esatti dalla guarigione, o quattro mesi dall’ultima puntura, senza un nuovo passaggio all’hub si diviene un paria. Non si vale più nulla. Zero.
Per chi come me ha sempre considerato l’Altro nella sua irriducibile singolarità-complessità in relazione con molteplici altre singolarità-complessità, tutte irripetibili e uniche, nel miracolo di un’esistenza che è finita ma non irrilevante, per chi guarda agli uomini con questo sguardo lo scempio di questo periodo di crassa tecnocrazia è un dolore cocente, ingiustificabile, che la supposta cecità degli esseri umani acuisce senza posa.
Si diceva, poco sopra, di principi condivisi e di un fantomatico nodo che impedirebbe l’intesa tra chi, apparentemente, si colloca nella medesima metà del campo. Da lungo tempo mi interrogo sulle ragioni di tale incontrovertibile dato di fatto: che si possano professare gli stessi principi esercitandoli in modo tanto differente. Lascerò da parte le molteplici possibili chiavi di lettura del fenomeno (psicologica, morale, sociologica, storica…) per concentrarmi su una semplice riflessione razionale, in una prospettiva personale. Non mi interessa, infatti, superare i limiti prospettici, anzi: direi che proprio la prospettiva, nella sua parzialità, va indagata e ascoltata. La filosofia verrà dopo, quando il distanziamento emotivo e temporale lascerà lo spazio al pensare il Covid con la dovuta lucidità, quando tutti coloro che, con l’occasione, sono saliti sul pulpito per fare la lezione agli astanti ne saranno discesi e avranno magari trovato il tempo per accorgersi di (o per inciampare in) travi e pagliuzze; a partire da sé, come sempre si dovrebbe.
Comincerò col confessare che non ho capito i reiterati riferimenti al concetto di libertà di cui è stato fatto ampio uso nella catechesi sociale. Tra le lezioni più moleste – temo, non per via del solito, vecchio tafano che disturba, inopportuno, chi si illude di stare ‘dalla parte giusta’ senza esserlo davvero - quella sulle varie declinazioni della libertà mi è sembrata quella più asservita alle convenienze. “Liberi di”, “liberi da”, “la libertà che finisce dove comincia quella degli altri” sono espressioni che lasciano il tempo che trovano quando sono avulse dal contesto in cui quella libertà si applica. La libertà è, infatti, sempre in relazione ad un contesto. La libertà assoluta è un concetto astratto, prerogativa di qualcuno che si pensa fuori dalla relazione, ad esempio un’antica divinità; chi si pensa ab-solutus non ha bisogno di reclamare la libertà: da cosa, infatti, dovrebbe essere ab-solutus? Eppure, quante volte ho visto abusare di quei vuoti distinguo per arrivare a concludere che chi ‘pretende di fare quel che vuole’ (sic) si macchiava della colpa di pensarsi come ‘assolutamente’ libero? A me sembra che il problema non stia affatto nel concetto di libertà, quanto nella necessaria relazione tra l’esercizio della stessa e i limiti che a questo esercizio impone la convivenza con altri esseri umani, includendo però anche il reciproco (di cui sovente ci si dimentica), ovvero i limiti che la comunità deve porsi nei confronti del singolo membro. Il rispetto della dignità, ad esempio.
Ma, e qui il discorso si amplia, che tipo di ‘convivenza’ abbiamo in mente quando ne parliamo? Mi spiego: se devo convivere con qualcuno in un contesto occasionale (al campeggio estivo, mettiamo), potrebbe essere sufficiente che io operi un temporaneo adeguamento della mia condotta alle regole vigenti in quell’ambito, giuste o sbagliate che esse mi appaiano, tanto è questione di poco tempo (ore, giorni) e di poca sostanza (esistenziale e giuridica). Mettiamo il caso che nel campeggio sia proibito giocare a palla tra le tende: nessuno farà una questione del fatto che viene pregiudicata la mia libertà personale di giocare quando voglio, perché il divieto vige di fatto solo in un ristretto contesto comunitario (tra le tende). Se invece parliamo di una societas fondata su principi stabili e condivisi (una Costituzione e delle Leggi, ad esempio), la sospensione delle libertà garantite dalla Costituzione e dalle Leggi sarebbe immediatamente questione pervasiva e apparirebbe ingiustificabile qualora essa non si attenesse rigorosamente alle procedure poste – da quegli stessi ordinamenti - a salvaguardia dei cittadini rispetto ad ogni possibile arbitrio. E arbitrio apparirebbe, ad esempio, quello di chi interpretasse – anche in buonafede - il bene comune (concetto problematico da sempre) secondo criteri non condivisi. Facciamo l’esempio concreto: se una societas, per mano del suo governo, sospendesse il diritto costituzionale dei suoi cittadini all’autodeterminazione rispetto alle cure in nome di un supposto bene comune (concetto, ribadisco, problematico) relativo alla salute (altro ambito spinoso, come ci insegna la storia della medicina, e non solo), per esserne legittimata dovrebbe agire in base a dati scientifici trasparenti e democraticamente condivisi, improntati al principio di precauzione e al bilanciamento tra rischi e benefici; e questo senza dimenticare che ‘democrazia’ non corrisponde semplicemente a ‘decisione della maggioranza’: scordarlo sarebbe un errore grossolano come ben sa chi conosce almeno un poco il pensiero politico. Se, infatti, ciò che si diceva necessario non fosse possibile (per qualsiasi ragione immaginabile: poco tempo, sperimentazione in corso, dati provvisori e incompleti, ecc.), il governo dovrebbe limitarsi a consigliare e a rendere disponibile un trattamento sanitario a chiunque volesse sottoporvisi, senza tuttavia imporne – più o meno surrettiziamente - l’obbligo a quei cittadini che scegliessero di astenersene. Ora, ciò non varrebbe tanto più se questa astensione, alla prova dei fatti (e non della canea dei media), non rappresentasse affatto un pericolo reale per la comunità? Nella fattispecie, in che senso un farmaco che non immunizza e non impedisce il contagio dovrebbe essere somministrato erga omnes allo scopo impossibile di “prevenire la diffusione del virus SARS-Covid-2” (come recitano i tanti DPCM trasformati in Legge da un Parlamento esangue)?
Questa domanda capitale precede tutta una serie di ulteriori possibili domande: perché scegliere di chiamare vaccino un farmaco che non si comporta come tale, tanto da doverne modificare il lemma in modo preventivo? Perché poggiare tutto l’impianto sanitario solo su questo ritrovato farmaceutico? Perché puntare solo sulla medicina sperimentale (precisa, ma costosa, lenta, inapplicabile durante le emergenze) e umiliare quella clinica? Perché negare i capisaldi dell’immunologia non riconoscendo la rilevanza dell’immunizzazione naturale, che da sempre spegne le epidemie? Perché intervenire nel rapporto medico-paziente in misura così massiccia, di fatto esautorando i medici del loro ruolo di consulenti per la salute? Perché tanta ostilità verso il contraddittorio nel dibattito medico-scientifico? Perché screditare gli autori e celare gli esiti degli studi scientifici che rivelano le falle del sistema, anziché servirsene per tapparle? Perché creare una divisione tra cittadini che impedisce di rivalutare serenamente una narrazione che si è ampiamente dimostrata problematica? Domande legittime, eppure ignorate, anzi, messe all’Indice.
In tale contesto, la reiterata marcatura di valori socialmente rilevanti come l’appartenenza, l’etica sociale, la responsabilità, il rispetto, la mutua assistenza, finisce per far nascere il dubbio che si tratti di un’operazione puramente formale; si tralascia, infatti, di soffermarsi a riflettere sui presupposti di questa impostazione.
La dimenticanza potrebbe non essere casuale, anzi, essa potrebbe essere funzionale al nascondimento di ciò che proprio non si può (o non si deve) vedere, ovvero quei presupposti stessi: che non può darsi etica senza autentica ricerca della verità (anche molteplice e plurale, purché rispettosa della regola aurea); che non può darsi responsabilità senza libertà; che non può darsi appartenenza senza fratellanza; che non può darsi rispetto senza riconoscimento dell’altro; che non esiste mutua assistenza senza reciprocità.
E che l’assenza di tutto ciò si configura come l’annichilimento di ogni possibile umanità.