IL TEMPO CHE FU
Il sintomo del dominante Zeitgeist”, cui l’arrembante tecnologia, l’avamposto del capitalismo dotato di medusea seduzione, ha imposto la legge ferrea della velocità e del fuggevole presente, come il solo ed unico tempo della vita, fu la decisione, nell’ottobre 2018, dell’allora ministro della Pubblica Istruzione, Marco Bussetti, di cancellare il tema di storia dagli esami di maturità. Il ministro recepiva le conclusioni della Commissione di esperti, presieduta dal linguista prof. Luca Serianni, sull’inutilità del tema di storia, perché, statistiche alla mano, solo il 3% dei maturandi lo sceglieva. Scattò immediata la vibrata e risentita protesta degli storici, con un documento in cui si lamentava che «la scomparsa della tradizionale traccia di Storia dalle tipologie previste per l’esame di maturità sembra seguire un percorso di marginalizzazione della storia nel curriculum scolastico, già iniziato con la diminuzione delle ore d’insegnamento negli istituti professionali» e come in tal modo si accelerasse, «senza rendersene conto, un processo già in atto di riduzione del significato dell’esperienza del passato come patrimonio di conoscenze per la costruzione del futuro». Ma anche la senatrice a vita Liliana Segre, scampata al campo di annientamento di Auschwitz, intervistata da «Repubblica», annunciava che avrebbe lottato per cambiare la riforma dell’esame, perché «togliere la traccia di Storia dall’esame di maturità è un modo per cancellare la memoria, per dimenticare».
Quella proposta indecente fu presto ritirata e, per iniziativa del nuovo ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, sensibile alla mobilitazione degli storici e degli intellettuali sulla necessità di conoscere il passato per formare la libertà critica, con l’Esame di Stato, nel giugno 2020, tornò a essere obbligatorio un argomento storico nella prima prova scritta di Italiano.
Ma il ripristino della prova di storia agli esami di maturità, esso solo, non rassicura affatto quanti stimano la storia come disciplina centrale, non solo nel curricolo educativo della scuola, ma anche nella formazione critica della società nel suo insieme. Si levano, perciò, numerose le denunce degli specialisti della materia verso il declino di quella disciplina che un vecchio aforisma di Cicerone definiva “maestra di vita” (che poi era la semplificazione del concetto tucidideo sulla «fiducia nel valore prognostico della conoscenza storica» e, quindi, sull’utilità del suo racconto della Guerra del Peloponneso a «quanti vorranno vedere con precisione i fatti passati e orientarsi un domani di fronte agli eventi, quando stiano per verificarsi, uguali o simili, in ragione della natura umana», l. I, cap. XXII) .
Un documentato e appassionato “cahier de doléances” sulla ghettizzazione della storia è quello che ha di recente dato alle stampe un maestro degli studi storici, Adriano Prosperi, per la collana Le Vele di Einaudi, Un tempo senza storia – La distruzione del passato, pp. 121, € 13,00. Non c’è però solo la denuncia della distruzione del passato in questo opuscolo, tanto denso di suggerimenti e di riflessioni che, condensare gli uni e le altre in una recensione, riesce davvero difficile. C’è anche, per dirla col titolo del libro più famoso di Marc Bloch, una “apologia della storia”, che, con ben argomentate ragioni, innerva tutto il libro, e che nasce proprio dalla drammatica consapevolezza che «sempre più evidente è un processo che potremmo definire di distruzione del passato».
A partire da quando? Dal 9 novembre 1989, quando cadde il Muro di Berlino. Che, per Francis Fukuyama, decretava la “fine della storia” e l’inizio del «tempo di fermarsi a godere i frutti della liberaldemocrazia e del capitalismo», insomma la variante tardonovecentesca della tanto dileggiata, da Leopardi, fede nelle “magnifiche sorti e progressive” del genere umano. Quando, invece, i corifei del neoliberismo – avverte Prosperi – hanno «poi dovuto fare i conti con l’unica legge fondamentale della storia umana, il mutamento». Epperò, se la storia non era finita, finito era il suo approccio con essa. Individuò bene quel fenomeno, già nel 1995, Eric Hobsbawn, allorché nel suo celebre libro Il secolo breve osservò che «la maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono».
Fenomeno che affligge non solo l’Italia ma tanti altri Paesi dell’Europa, ma che in Italia è «aggravato dalla poca cura dedicata a biblioteche, archivi e musei, considerati enti inutili e non redditizi, colpiti da continue riduzioni di personale, mezzi e strumenti», ma anche, «nel contesto della scuola italiana», dall’«affermarsi nell’apparato della burocrazia ministeriale di una pedagogia che ha distaccato una presunta scienza del saper insegnare dalla conoscenza di ciò che si insegna».
Tuttavia – soggiunge Prosperi –, la scuola non è la principale imputata degli «smarrimenti e delle smemoratezze attuali». Piuttosto, «di questo processo fa parte integrante proprio Internet. Oggi, molto si può sapere da moltissimi e in molto minor tempo di una volta. Ma c’è la stessa differenza che esiste tra la lenta masticazione del pane e cipolla di un bracciante e l’odierno fast food interclassista». Perciò, «quello che si è conquistato è nell’ordine della velocità orizzontale più che in quello della profondità».
Ne discende, di necessità, «la liquidazione del senso della durata storica e ideale», che, in luogo dell’acquisizione della consapevolezza che la storia, come la politica che ne è sua levatrice, è conflitto, ha visto emergere «una parola nuova destinata a rapido successo: l’identità», che è azzeramento di differenze e di pluralismo di idee e di culture politiche, e che, proprio per questo, trova buona udienza negli ambienti della destra reazionaria, non solo in Italia, dove il recente “passato che non passa”, cioè il fascismo, si aggira sempre nell’aria e nell’area del potere politico, ancorché sotto mentite spoglie. Donde, «lo storico americano Tony Judt fu tra i molti che [dell’identità] denunziarono il carattere nefasto e ne indicarono le radici nel rampante neoliberismo».
Il libro non si chiude con i toni della disperazione e della resa. Tutt’altro. Infatti, mentre da una parte Prosperi rivendica che «l’esperienza del recente passato ha fatto emergere la consapevolezza che la ricerca della verità ha come verifica la capacità del ricercatore di smascherare inganni e falsità del potere, fino al punto che la missione dello storico è stata definita come l’opposto della legittimazione dello Stato e di qualunque potere», dall’altro, contro la crisi di futuro che attanaglia principalmente le giovani generazioni, addita una verità inconfutabile: che «solo la certezza di venire da lontano può spingere a guardare davanti a sé». Chi, meglio di altri, lo comprese fu Walter Benjamin, quando, davanti al disegno di Paul Klee l’Angelus Novus, che spiega le ali verso il futuro ma tiene lo sguardo voltato verso le proprie spalle, così interpretava: «il vento della storia gonfia quelle ali ma lo sguardo si volta verso il passato per ritrovare il legame con le attese di coloro di cui siamo il futuro». Perché delle «risorse della memoria» abbiamo assolutamente bisogno, «mentre un vento di bufera» (tale è il Covid-19) «gonfia le ali e spinge verso l’ignoto futuro».