ULTIME AVVERTENZE PER AFFRONTARE LA CONGIURA
Alcuni fatti
In due recenti occasioni ho ascoltato, abbastanza incuriosito ma per niente sorpreso, le opinioni di due persone differenti per età e formazione: una di sessant’anni e una di quasi cinquanta, una con laurea in indirizzo tecnico e l’altra con diploma tecnico. Entrambe ben integrate nel tessuto sociale e produttivo attuale. Una di genere maschile, non sposata e senza figli; l’altra di genere femminile, sposata e con entrambi i figli che frequentano l’università italiana. La loro, sebbene sommaria, descrizione è utile a comprendere la trasversalità e la diffusione di certe opinioni nelle generazioni che attualmente hanno in mano la gestione, nel senso più lato, della società. La prima, senza essere interrogata sull’argomento e all’improvviso commentando la società attuale, si chiede e mi chiede: “a che serve andare a scuola e anche all’università se non ti insegnano un mestiere?”. La seconda, invece, all’interno di un discorso sui tempi degli studi universitari, risalenti a circa trent’anni fa, sostiene: “si faceva troppa teoria che non serviva poi nella professione. Le cose più pratiche le ho dovute imparare da sola”. In quanto tempo? Ho chiesto io. E lei: “in qualche mese”.
Facili considerazioni
Riporto questi fatti ché sono certo rappresentino un pensiero assai comune e diffuso. Tanto diffuso che non sorprende nessuno, ma, al contrario, trova consensi e credito sempre più ampi. Tra le tante cose a cui non crediamo più c’è l’importanza della scuola, di andare a scuola, di studiare. E questo vale per tutti i livelli di istruzione. Andare a scuola per studiare e imparare con il solo fine della conoscenza non ha più lo stesso valore di un tempo neanche troppo lontano. Ricordo ancora i miei genitori, e come loro tanti altri di quella generazione, intenti a inculcare nelle nostre giovani menti l’importanza di andare a scuola. Perché fosse importante non era neanche necessario spiegarlo: era importante, anzi vitale, e basta. Lo era per tante cose, molte delle quali non sapevano spiegare neanche loro ma riuscivano a intuirle.
Nella generazione dei miei genitori, in tanti non avevano, per ragioni diverse, completato tutti i gradi di studio, ma lo stesso davano grande, se non di più, importanza alla scuola. Proprio quelli che non avevano potuto frequentare la scuola se ne rammaricavano e invitavano accaloratamente ad approfittare delle occasioni che lo studio avrebbe offerto: lo studio e non andare a lavorare.
Una delle minacce più frequenti a chi non voleva andare a scuola era: “non vuoi studiare allora vai a imparare subito un lavoro”. Andare a lavorare aveva un valore inferiore e quasi denigratorio rispetto allo studiare, all’andare a scuola, attività ben più nobile e affrancante. Nella scuola si poteva elevare lo spirito con la conoscenza e di conseguenza anche migliorare la propria condizione sociale. Questa consapevolezza era chiara a tutti: sia a quelli che la scuola potevano permettersela che a quelli, forse ancor più dei primi, che la scuola potevano permettersela a costo di grandi sacrifici. Mentre quelli che non potevano permettersela per niente o fino all’obbligatorietà, e non sempre, rivendicavano il diritto allo studio. Allo studio e non solo al lavoro. Le due cose andrebbero distinte perché viaggiano in direzioni parallele e, come i binari del treno, concorrono a raggiungere la meta della compiutezza e della dignità dell’essere umano.
Al contrario, oggi chi ha “studiato” non dà più quella stessa importanza alla scuola e allo studio. Per questi, ogni cosa deve avere uno scopo pratico; ogni cosa deve servire a qualcosa che l’uomo deve poter utilizzare immediatamente. Si chiede così alla scuola di negare il suo significato originario – “tempo libero da occupare con lo studio” – e di insegnare un mestiere, di insegnare a lavorare, di insegnare qualcosa di immediato e di pronto utilizzo. Perché? Perché non si dà più importanza alla scuola e a tutto ciò che studiare comporta? Perché le aspirazioni della generazione dei nostri genitori non hanno trovato riscontro nella società che abbiamo costruito? Perché l’uomo contemporaneo non vuole più emanciparsi dal lavoro? Chi lo irretisce? Chi gli sta facendo credere che la libertà coincide solo con il lavoro? Chi lo ha convinto che lavorare è più importante di studiare? Quando si sono invertiti i valori di studio e lavoro? Quando la pratica ha soppiantato la teoria? Senza la scuola in quanto tempo si potrebbero imparare, da soli, le “inutili teorie” studiate per laurearsi? Chi ci sta facendo credere che l’ignoranza si possa colmare con l’accesso continuo e infinito alle informazioni disponibili in rete? Chi ha stabilito per tutti, e nessuno si lamenta di ciò, che la conoscenza deve essere solo conoscenza di un lavoro?
Ultime avvertenze
A individuare “chi” e non solo è stato il filosofo Davide Miccione. Egli, infatti, si spinge oltre alla individuazione di “chi” fino a configurare una vera e propria congiura di questi: “La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura” (2024). Una congiura che mi piace attribuire agli “avvistati”, a cui, già un decennio fa, il Nostro invitava a prestare attenzione nella sua prima scrupolosa analisi della deriva della cultura del mondo contemporaneo dal titolo “Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo” (2015). La straordinaria novità dell’analisi di Miccione è nell’aver indicato a chi attribuire le condizioni attuali della cultura e nel riconoscere le modalità di azione, la congiura. Riconoscimento che consente di aver ben chiaro chi è il “nemico” da affrontare e le armi che usa. Informazioni di fondamentale importanza per chi intende contrastare l’attuale andazzo delle cose.
Non mi voglio dilungare nella sintesi e nell’argomentazione dei contenuti del libro, come vorrebbe una corretta recensione di un libro, perché a svilupparli meglio di chiunque altro è lo stesso autore, con una prosa immediata, diretta, assai colta e ben informata. Piuttosto mi voglio soffermare sull’importanza di leggere con molta attenzione le riflessioni di Miccione, sia quelle del primo che di quest’ultimo libro. Quelle di Davide Miccione sono delle vere e proprie avvertenze, nel senso più stretto del termine avvertenza: “atto di informare qualcuno di qualcosa di importante come di un pericolo, di una minaccia, di un rischio”. In questo risiede l’importanza delle riflessioni del Nostro. Miccione, come ogni buon filosofo, osserva e analizza la realtà mettendo in luce quelle peculiarità che la maggioranza delle persone non riesce a vedere. In questo modo, è riuscito a scorgere la congiura in atto dalla quale vuol salvare chi vuol farsi salvare. Sì, perché per potersi salvare è necessario sapere, essere consapevoli, di correre un rischio o di essere in pericolo. Nessun inconsapevole può salvarsi o essere salvato. Le avvertenze di Miccione tendono a rendere consapevole il lettore dei rischi che sta correndo e pertanto a cercare di metterlo al riparo dal pericolo.
Il pericolo indicato da Miccione è l’ignoranza. Non l’ignoranza socratica di chi sa di ignorare, bensì l’ignoranza arrogante di chi non sa di ignorare e che per di più mette in scena una congiura. Una congiura subdola che non punta a creare direttamente l’ignorante, ma impedisce di creare uomini colti, capaci di senso critico proprio e di un pensiero veramente autonomo, veri antidoti al dilagare dell’ignoranza.
Una congiura che è attuata a tutti i livelli dell’istruzione e attraversa tutte le fasce di età, dall’infanzia all’uomo adulto fino all’anziano. Il Nostro filosofo scorge i segnali della congiura, oltre che nella scuola, nel web e nella politica. Tutti così concorriamo alla congiura, consapevolmente o inconsapevolmente, colpevolmente o incolpevolmente, perché tutti siamo immersi nella realtà che ha ben descritto Miccione. Nessuno che sappia, può e deve restare indifferente. Ecco un’altra ragione che rafforza l’importanza e l’impellenza della lettura delle riflessioni di Miccione. L’avvertenza è chiara e rappresentata con tutta la potenza delle cose urgenti. Ognuno di noi, dopo aver letto il libro, può decidere da che parte stare. E si dà per scontato (mi scuso per la presunzione) la parte che, se si è compresa la dimensione della congiura, si sceglierà. Una congiura di portata planetaria che non risparmia nessun paese, nessuna tradizione e cultura. Una congiura globalizzata e globalizzante, che si attua nel locale e si riverbera nel globale. Una congiura tecnologica a danno dell’intelletto, che una volta che sarà definitivamente sedato potrà essere soppiantato da qualsiasi tipo di intelligenza artificiale, anche la meno evoluta. Una congiura in stato avanzato di compimento che, per come è descritta da Miccione, non può più passare incolpevolmente inosservata.
Speranza
L’auspicio, infatti, è che non si resti indifferenti e che, anche se molto sembra essere stato già compromesso, si cominci o continui a lavorare perché la congiura fallisca. E se è vero, come dice Miccione, che “…non si può fare finta di ignorare che ogni anno che passa muoiono uomini formati da altri uomini e diventano adulti individui che sono stati formati alla vita e all’interazione umana da realtà artificiali e non da altri esseri umani, che hanno fissato uno schermo ben più di quanto non abbiano guardato il volto di un altro, che hanno mosso il proprio avatar in un videogame più di quanto abbiano mosso il proprio corpo” (p.160), è altrettanto vero che, se il Nostro filosofo scrive ancora sull’argomento, la lotta contro la congiura dell’ignoranza non è del tutto persa. La speranza è che, tra qualche lustro, ci sia un numero sempre maggiore di persone capaci di comprendere l’importanza della cultura per l’umanità, chiaro segnale che la congiura non si è compiuta del tutto perché si è invertita la rotta con ampi margini per la salvezza. Del resto, è un fatto che si comprenda il valore delle cose nel momento in cui queste si stanno per perdere definitivamente. Io, appunto per questo, rimango in trepidante e attiva (nel mio piccolo, provo a dare il mio contributo) attesa di vedere come evolverà il tutto e come lo analizzerà ancora Davide nel suo prossimo lavoro: conclusione di una trilogia?