Aldous

Circolari ipnopediche

LO SCEMO ETICO

In una videointervista di qualche mese fa il filosofo Vincenzo Costa, con aria un po’ amareggiata, annotava come la classe medio-colta o pseudo tale, non fosse mai stata tanto lontana come oggi da una verosimile percezione della realtà e da una lettura vagamente sensata del mondo. Con una certa necessaria crudeltà intellettuale Costa entrava nel dettaglio e raccontava come, in un qualsiasi bar, uno di quelli in cui la gente che lavora passa a bere un caffè, si potessero ascoltare discorsi di maggiore buon senso e più vicini alla realtà della vita e della società rispetto alle conversazioni con un istruito lettore di quotidiani. È una cosa che da qualche anno colpisce anche chi scrive e la stesura e pubblicazione, nel 2024, di due libri rispettivamente sulla fine del pensiero nella società e sull’ignoranza, forse giustifica il tentativo di una spiegazione di questo strano fenomeno.

L’idea in verità non è del tutto nuova. Il dimenticato Rodolfo Quadrelli (che celebra quest’anno il quarantennale dalla morte) parlava spesso della mezza cultura (riferendosi a gente impastata di nozioni di sociologia e psicologia) che era la più lontana dalla comprensione della realtà. È il tema occhieggia da sempre nella cultura russa. Ma in entrambi i casi la constatazione seguiva o preludeva a una svalutazione della cultura “contemporanea” a fronte della grande cultura occidentale filosofica greca e cattolica oppure, nel secondo caso, a una svalutazione di una cultura occidentalizzata e razionalista a fronte della tradizione del popolo. Sarebbe dunque un classico locus della cultura conservatrice (se ne possono desumere elementi, ad esempio, anche da Del Noce o da Allan Bloom o da Šestov) e con agganci, comunque, nella lettura cristiana del mondo, si pensi a Matteo (11, 25-27) dove Dio cela la verità ai sapienti et revelasti ea parvulis,

In questo nostro caso, però, la critica di Costa non sembra avere una precisa posizione da cui “giudicare” la miopia dei “mezzi colti”. Il suo giudizio appare più laico e minimale, quasi a dire: “qualsiasi lettura del mondo va bene a patto che il mondo sia presente e non inventato di sana pianta, a patto che una minima verosimiglianza psicologica e un vago principio di contraddizione permangano”. Reso dunque improbabile lo scontro tra grandi letture del mondo meglio allora cercare di ricostruire il “come”, il meccanismo attraverso cui il “colto medio”, o supposto tale, ha perso la verosimiglianza del suo discorso. Innanzitutto è oggi necessario definire in che senso si possa parlare di “persone di cultura” messe a confronto con “gente semplice”. Nell’epoca della laurea di massa, la cui “esplosione/discesa” grazie alla diffusione delle università telematiche è solo all’inizio, il possesso di questo titolo di studio (come ha ben spiegato Ricolfi) non rappresenta un affidabile indicatore di cultura. Il laureato sta progressivamente diventando solo colui che ha desiderato la laurea, non colui che ha acquisito contenuti e competenze equivalenti. Se una materia può essere superata con un semplice test a risposta multipla, magari dal pc di casa e in condizioni di minima sorveglianza, la laurea è solo una questione di volontà e di mezzi finanziari, non di intelligenza e studio. Non la possiede solo chi non ha pensato di ottenerla.

Dunque non segnala nulla? Nulla ci dice sul laureato? Non proprio. Se l’indicatore culturale si è fatto vago quello psicologico invece merita qualche riflessione. La laurea ci dice molto dell’autopercezione (non è forse tutto autopercezione oggi?) del laureato, il suo desiderio di affrancarsi dai lavori considerati umili o di compensarli con un titolo di dottore, la sua ambizione, il suo desiderio di scalata sociale o perlomeno di distinzione, legittimo se accompagnato da preparazione ma velleitario nel migliore dei casi e immorale nel peggiore se non lo è.

Iniziano così ad apparire i tratti di quest’uomo e questa donna che con aria saputa si allontanano dal principio di realtà. Giacché stiamo parlando di grandi numeri e i lettori forti (i lettori forti sarebbero coloro che leggono più di un libro al mese, quindi non troppo forti) in Italia, già una decina di anni fa, erano meno dell’uno per cento possiamo togliere i libri dalla loro vita intellettuale. Taciamo per carità di patria il fatto che un lettore forte potrebbe in un anno aver letto diciotto volumi Harmony o quindici libri di barzellette di Totti.

Cosa resta allora per costoro a differenziarli? Un lavoro non manuale (molti gli insegnanti tra i “mezzi colti” suppongo), forse una formazione liceale e una frequentazione di un corso di laurea tanti anni fa e poi giornali e talk show politici. Messi fuori gioco i libri che, se ben scelti, avrebbero potuto aiutare i volenterosi lettori a capire meglio il mondo, resta semplicemente una maggiore esposizione alla macchina informativa e una sedicente maggiore “politicità” che si traduce in qualche post letto e scritto sui social e in un maggior consumo di programmi televisivi a sfondo politico.

Nella sua autopercezione il “mezzo colto” pensa di doversi informare sul mondo tramite i media più che di esperirlo direttamente. Fatte queste debite premesse il “mezzo colto” si trova nella condizione ideale per venire deformato mentalmente dal sistema di informazione. Diventa quello più esposto alle esagerazioni mediatiche. Lontani gli studi seri (se mai vi furono), notevole la frequentazione di quelle veline di regime (nella loro versione di destra e di sinistra) che sono i giornali (esemplare in questo senso Repubblica che miscida cultura pretesamente alta con sbrigative e fantasiose ricostruzioni dei fatti del mondo) e i talk. La ricerca di distinzione dal non-colto gli fa vedere come qualunquismo una non appartenenza, una apoliticità. Ormai, dimenticate le appartenenze ideologiche, il mezzo colto ha bisogno di essere identitariamente rassicurato sulla sua appartenenza al gruppo dei buoni, sull’essere dalla parte giusta, sul fare parte dell’Italia migliore. Ciò avviene attraverso l’identificazione di una serie di “mali assoluti” (a quelli tradizionali, fascismo e razzismo, altri se ne sono aggiunti negli ultimi anni) la cui stigmatizzazione lo alloca, in automatico, tra i buoni.

Cresciuto in una cultura emotivista in cui, passati gli anni Settanta, si è trovato a sostituire l’eguaglianza con la filantropia (e poi con l’inclusione, qualsiasi cosa significhi) e il conflitto con il dialogo, il “mezzo colto” si trova del tutto sprovvisto di categorie d’analisi. Per impedirgli di farsele queste categorie, lo spettacolo integrato lo sposta di emergenza in emergenza (l’undici settembre, la crisi del 2008, la pandemia, l’ucraina, la crisi climatica, il patriarcato, l’omofobia). In ognuna di queste crisi l’informazione prevalente dispiega la polarità buoni-cattivi (a volte per questioni più piccole sostituita da quella onesti-disonesti) e blocca il processo d’analisi. All’interno delle grandi crisi la macchina informativa isola poi piccole crisi e piccole ossessioni (Cogne, Avetrana, Turetta eccetera) per frammentare ulteriormente la lettura del mondo del “mezzo colto” e per distrarlo e spiega come porsi rispetto alle cose per essere inappuntabili.

Così, la cultura di base dei “mezzi colti” serve soltanto a renderli più permeabili dei non-colti a questo processo di blocco della pensabilità del mondo in cui siamo finiti. Il “mezzo colto” interiorizza il divieto di pensare seriamente, nella loro difficile conciliabilità l’immigrazione, il  vaccino anti-covid, i rapporti uomo-donna, il razzismo, l’identità sessuale, i rapporti tra nazioni, la  politica Nato eccetera, perché in ognuno di queste questioni rischierebbe di attraversare luoghi  della mente che una personcina a modo non deve frequentare. La realtà che ha sotto gli occhi, il  declino economico, le difficoltà di chi gli sta accanto, potrebbero insegnargli molto, insegnargli  come più ambigua, più sfumata, più articolata sia la realtà rispetto a quello che ne pensiamo, ma  la sua mezza cultura lo rende più permeabile ai concetti (che non domina) che all’esperienza di  vita. In tempi non lunghissimi un soggetto sottoposto a questa routine cognitiva diminuisce la  propria intelligenza delle cose a cui preferisce la reiterazione di alcuni luoghi comuni. In poche  parole, e con un po’ di brutalità, diventa uno scemo, uno scemo etico.