QUESTIONI DI VITA E DI MORTE
Recentemente il Consiglio regionale della Toscana ha approvato una proposta di legge d'iniziativa popolare a favore del suicidio medicalmente assistito, unica a vedere la luce dopo analoghi tentativi che l'hanno preceduta senza successo in altre regioni, indipendentemente dal colore politico dei rispettivi governi. Nel 2019 la Corte Costituzionale si era espressa per la regolamentazione di questa materia, invitando in seguito più volte il Parlamento a colmare il vuoto legislativo.
Ad uscire dallo stallo ci ha pensato la regione Toscana con una mossa a doppia valenza di opportunismo politico e di atto dovuto. In autunno si terranno le elezioni per il rinnovo del governo regionale e, a ben guardare, la larga maggioranza che ha approvato la legge sul "fine vita", nell'occasione ha potuto sperimentare la tenuta del cartello elettorale del cosiddetto campo largo. Ma al netto dell'illazione di cinismo, va riconosciuto ai consiglieri toscani il merito di aver riportato l'attenzione su un diritto caduto in ostaggio dell'ignavia politica (anche in questo caso senza distinzione di schieramento) indicando in sei scarni articoli i ruoli, i tempi e le procedure di attuazione nel perimetro stretto delle indicazioni della Consulta. Un passo che ha rinnovato l'immagine della Toscana paladina dei diritti e della dignità della persona fin dai tempi del Granduca di Lorena, primo Capo di Stato al mondo ad abolire la pena di morte. C'è dunque di che rallegrarsi ma anche molto su cui riflettere, non prima però di aver ripercorso come si è arrivati alla sentenza del 2019.
All'inizio si trova il noto caso giudiziario Cappato-Antoniani e la Corte d'Assise di Milano che solleva presso la Consulta il dubbio di parziale incostituzionalità di un articolo del codice penale dove vengono equiparati alla medesima stregua criminale e punitiva tanto il reato di istigazione al suicidio quanto l'aiuto a compierlo. Tra le diverse argomentazioni a sostegno della loro tesi, i giudici milanesi mettono in luce il presupposto, a loro parere errato, che considera il suicidio "intriso di elementi di disvalore, in quanto contrario al principio di sacralità e indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell'individuo, ritenuti preminenti nella visione del regime fascista". La tutela dell'individuo - si legge ancora negli atti - era secondaria in epoca fascista rispetto a quella della collettività statale e non disponibile liberamente per il suo titolare; di conseguenza il suicidio era visto come sottrazione della forza lavoro ai cittadini e alla patria. Al contrario, la prospettiva personalistica che percorre la Costituzione pone l'individuo e non lo Stato al centro della vita sociale. Da qui deriverebbe, secondo i magistrati milanesi, la libertà della persona di disporre di sé al punto che "il bene giuridico ... andrebbe oggi identificato, non già nel diritto alla vita, ma nella libertà e consapevolezza della decisione del soggetto passivo di porvi fine". In questa cornice si fa riferimento ad altri diritti già sanciti in ambito medico quali il rifiuto di cure, anche necessarie per la sopravvivenza, l'accesso alle terapie palliative e alla sedazione profonda, il divieto dell'accanimento terapeutico e le disposizioni anticipate di trattamento (biotestamento).
Dall'istanza della Corte milanese traspare una forma perfetta di autodeterminazione della volontà personale che non trova corrispondenza nell'esito ridimensionato dalla Consulta, secondo cui lo Stato non ha il dovere di riconoscere alla persona la possibilità di ottenere un aiuto a morire. In nome della tutela del diritto alla vita, in particolare per le persone più deboli e vulnerabili, viene in tal modo esclusa l'incostituzionalità tout court del reato di aiuto al suicidio, tranne che in circostanze di eccezione per le quali il caso Antoniani ha fornito il paradigma in sequenza non casuale: una patologia irreversibile, sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e la capacità della persona di autodeterminarsi. Si ammettono così condizioni specifiche per accedere al diritto di fine vita fra le quali la volontà della persona cosciente diventa l'ultimo dei requisiti e in ogni caso serve la verifica da parte di una commissione di esperti (tra cui un medico palliativista, uno psicologo e uno psichiatra) e del parere di un comitato etico.
L'intervento di tali organismi terzi cui è affidato in ultima istanza il consenso alla procedibilità (termine arido ma appropriato per la piega sanitario-burocratica della "cosa") svela con tutta evidenza che la morte, in qualunque forma e tantopiù se cercata, non deve essere neppure pensata al di fuori dei canali deputati che ne hanno il controllo sotto il profilo del diritto e della scienza medica. Nella nostra cultura le professioni archetipiche del giudice e del medico, fin dall'origine dell'organizzazione sociale, per la loro vicinanza alla vita e alla morte, sono le depositarie del potere e del sapere su tali eventi. Le figure odierne, moltiplicate dall'iperspecialismo, cui spetta la formulazione del giudizio clinico sono riconoscibili tra gli esperti di specifiche patologie, gli psico-operatori, i certificatori, i virologi, gli epidemiologi e a breve probabilmente vi troveremo anche i processi governati dall'intelligenza artificiale. Non per caso molta parte della divulgazione a favore della IA è veicolata attraverso le innovazioni tecnologiche in ambito medico che promettono risultati mirabili nelle pratiche di cura e di riabilitazione fisica.
Stando così le cose, il pronunciamento della Consulta dice molto più della governance medica che della finalità di assicurare il diritto di congedo dalla vita. Perciò, prima ancora di stabilire astrattamente se la revoca di sé dal mondo sia un'opzione da considerare o da respingere e prima ancora di prendere posizione sull'opportunità di una regolamentazione, più o meno stringente, a tutela delle nuove istanze e delle aspettative della qualità della vita presenti nella società, prima di questo sono i concetti di salute, di malattia e di cura intorno ai quali proviamo a tratteggiare un ragionamento.
Si fa molto rumore mediatico intorno alla privatizzazione della sanità, un processo iniziato ben prima del governo delle destre, mentre nell'opinione comune si è rafforzata col tempo, a torto o a ragione, la percezione delle carenze strutturali della sanità pubblica. Nella polemica politica costruita sugli slogan è impossibile trovare spazio per mettere a fuoco quello che pensiamo essere il nocciolo della questione: la connessione tra la liberalizzazione del mercato della salute, la medicalizzazione della vita con il crescente fabbisogno indotto di cura, non solo per effetto dell'invecchiamento della popolazione, e la conseguente scarsità di risorse finanziarie disponibili per ogni richiesta. La legittima rivendicazione del diritto alla salute, che presuppone anche la tutela di altri diritti fondamentali come la qualità dell'ambiente, degli alimenti, le condizioni di benessere diffuso, ecc., si trasforma nel diritto di consumare maggiori quantità di beni e servizi offerti dal mercato al pari di ogni altra merce.
L'ossessione salutista nella peggiore delle ipotesi mobilita maggioranze docili all'obbedienza sanitaria. Per inciso, la convinzione onesta ma ingenua che la professione medica fosse zona franca per gli indici di borsa è stato probabilmente uno dei fattori che ha impedito in era Covid di intavolare un confronto argomentato sui vaccini e sulle scelte politiche che li hanno imposti surrettiziamente. L'ossessione salutista, dicevamo, nella migliore delle ipotesi (soprattutto per censo) diventa il carburante dell'indotto con tutto lo strumentario annesso di polizze assicurative e convenzioni tra il servizio pubblico e le aziende private, di pacchetti scontati per esami diagnostici, di indagini genetiche preventive e di screening massivi, di abbassamento dei valori soglia dei parametri di controllo e dei lanci pubblicitari di integratori e farmaci da banco, ecc. Non ultima la chirurgia estetica da regalare nelle ricorrenze importanti. Curare i sani è la non-più-segreta frontiera del modello operativo del libero mercato mentre si pensa di neutralizzare con i progressi della tecnica l'idea di finitezza e di morte dal corpo-macchina di cartesiana memoria. La longevità diventa, come il PIL per l'economia classica, un valore in sé che attesta e rinforza l'autorità attribuita alla e dalla scienza medica per la quale la morte, anche quella cercata, equivale ad una resa. Non prima però di aver pronunciato l'ultima parola per dire a qualcuno quando tecnicamente ed eticamente il suo congedo è legittimo.
Ma se dal punto di vista tecnico ci possiamo attendere un parere esperto, questo giudizio dovrebbe fermarsi sulla soglia del senso profondo e personale della vita che ciascuno è. La tensione tra l'individuo e la società è un dato di fatto al pari della dialettica tra la libertà personale e la spinta all'autoconservazione di ogni gruppo sociale. Questa salvaguardia, tuttavia, può trasformare la tutela della persona in imposizione e pretesa soffocando il libero arbitrio nel collettivismo che è l'anticamera dello stato di minorità.
Si aprono dunque molti interrogativi, a partire da quello più radicale che fa chiedere a chi apparteniamo e se la libertà sia costitutiva dell'esistenza o dia solo sostanza al desiderio - possibile o impossibile? - di raggiungerla; e ancora, da dove attingiamo, se lo attingiamo, il significato della vita? e in che punto si infrange oppure si compie? Domande oziose forse, inestinguibili certamente, ma tacitarle con l'ebbrezza tecnologica porta dritti dritti alla deriva tecnocratica.