NIENTE DI PERSONALE
In un articolo di qualche tempo fa comparso su L’Espresso la filosofa Donatella Di Cesare, a proposito della vicenda pandemica e del green pass, tornava sul “caso Agamben” con l’intento dichiarato di salvare il prestigioso collega dalla deriva complottista. Di Cesare si riferiva in particolare ad un’affermazione di Agamben riguardo al fatto che la pandemia - vera o simulata - fosse usata come pretesto dai poteri che governano il mondo per introdurre misure di sorveglianza e di discriminazione, privando i cittadini dei fondamentali diritti della persona sanciti dalla Costituzione. Le cupe insinuazioni di Agamben - si legge nell’articolo - lo iscrivono purtroppo nel panorama attuale del complottismo, giudizio tanto netto quanto inappropriato, alla luce delle riflessioni che la stessa Di Cesare esponeva nel suo Il complotto al potere (Einaudi, 2021). Se le narrazioni complottiste trovano oggi un seguito considerevole, osserva Di Cesare, significa che ci troviamo dinanzi ad una crisi politica che agita la democrazia contemporanea, sotto la spinta delle trasformazioni degli ultimi decenni e del disorientamento dovuto alla vorticosa quantità di informazioni diffuse soprattutto attraverso la rete. Dalla difficoltà di distinguere il vero dal falso nasce la frustrazione di non sapere più interpretare la realtà, diventata illeggibile nei suoi nessi causali, e prende consistenza la perdita di fiducia nei confronti di un potere senza volto, percepito come pervasiva e intenzionale minaccia.
Il rapporto con il potere, più che con la verità, è dunque la chiave interpretativa che Di Cesare predilige per indagare il complottismo ma l’aspettativa di trovare nel libro un’analisi conseguente con le premesse rimane delusa. Da un lato, il complotto è visto come «forma costitutiva di un mondo piegato alla ‘hybris’ capitalistica e dominato dall’onnipotenza dello Stato»” (p. 25) e come qualcosa che nasce «dalla società del mercato, dalla precarietà diffusa, dall’incertezza estesa, dalla fobocrazia sistematica, quel dominio della paura che caratterizza la ‘governance’ neoliberale» (p. 105). Dall’altro, però, si comprende presto che il maggior carico di responsabilità del complottismo grava sui soggetti che lo incarnano nel modo di essere, di pensare e di comportarsi. L’ipotesi iniziale di fatto è già la diagnosi secondo cui «chi ricorre al complotto non sopporta l’inquietudine, la domanda aperta. Non tollera di abitare in un paesaggio mutevole e instabile, non accetta l’estraneità. Si mostra incapace di riconoscersi, insieme agli altri, esposto e vulnerabile, privo di protezione, ma perciò più libero e più responsabile» (p. 4). Ciò che per un momento viene riconosciuto come esito di una governance globale scellerata, è un giudizio presto mitigato nel sollevare i centri di potere dalle loro responsabilità, come fossero assoggettati ad un funzionamento necessario anziché “agirlo” secondo logiche e obiettivi convergenti: «Quale ruolo hanno, dunque, la finanza internazionale, le multinazionali, le industrie farmaceutiche, le lobby militari, la tecnocrazia, il management? Ancora una volta la scorciatoia complottistica spinge a passare dalla macchina alla macchinazione» (p. 64). Ma la domanda sul guidatore, se non vogliamo credere in un ingranaggio impersonale, si spegne in una banale presa d’atto che le cose stanno come stanno. Di Cesare non omette le storture del sistema ma le considera il prezzo della democrazia, da sempre attraversata da un’insuperabile inquietudine (p.30) e ciononostante in grado di trovare in sé i correttivi per contenerla. Lo dimostra il lavoro di quanti hanno denunciato le imposture e rivelato i segreti delle élite. Chissà cosa direbbe in proposito Julian Assange.
Nell’intreccio tra il contesto globale e il profilo psicologico del complottista è dunque l’aspetto personale a spiegare la risorgiva di questo fenomeno: insicurezza, risentimento, vittimismo, pessimismo apocalittico, compulsione per la ricerca del colpevole, ed altre simili afflizioni. Ne consegue che «dare a qualcuno del “complottista” non significa certo rivolgergli un complimento. Si tratta, anzi, di un’etichetta stigmatizzante, che può fungere da strategia d’esclusione squalificando l’interlocutore e delegittimando il dissenso» (p. 105). Al posto del complottismo, Di Cesare propone di fare un buon uso del sospetto, migliore anche del pensiero critico ed ermeneutico, purché praticato con moderazione per non trasformarlo in un’altra gabbia della mente. La debolezza di questa prospettiva sul piano logico e anche politico si è infranta alla prova dei fatti e a farne le spese è stata la stessa Di Cesare, apostrofata in un talk show come filo-putiniana, per aver cercato di articolare un ragionamento sui generis sulla guerra in atto. Comprensibile e condivisibile è stata la sua reazione, affidata alle colonne di un quotidiano con il quale poco dopo ha interrotto la collaborazione: «Nei decenni passati la politica ha abdicato all’economia, riducendosi sempre di più a mera amministrazione. Negli ultimi due anni di pandemia ha abdicato pericolosamente alla scienza. Ma non ci saremmo mai immaginati che, anziché riprendere consapevolmente il proprio indispensabile ruolo, abdicasse alla guerra. Questo è gravissimo. C’è politica dove c’è pensiero. Dovremmo forse accettare una politica che si autoannienta?» (Pace, Putin e Occidente. Il mio diverso parere, La Stampa, 14.03.2022).
Nonostante il coinvolgimento di persone in carne e ossa, il senso di questa vicenda, che certo non rallegra, non ha niente di personale. Al contrario è da leggere nella prospettiva di una generale insignificanza in cui è caduta la soggettività individuale, dissolta nella dimensione collettiva, massificata e astratta, in cui l’individuo finirà per esistere al massimo come “profilo”. Questa realtà è molto evidente per quanti sostengono opinioni non allineate ma, senza avvertirla, la subiscono anche coloro che si sentono rassicurati dall’opinione maggioritaria. Le parole di Simone Weil, il cui pensiero è tutt’altro che l’esaltazione dell’individualismo, esprimono con chiarezza questa dinamica: «il pericolo maggiore non risiede nella tendenza del collettivo a soffocare la persona, bensì nella tendenza della persona a precipitarsi, a sprofondare nel collettivo. O forse il primo pericolo non è che l’aspetto apparente e ingannevole del secondo». (La persona e il sacro, Adelphi, 2012, p. 23).
Lo stigma di complottista è dunque un dispositivo perfetto, un surrogato delle scomparse grandi narrazioni, in grado di produrre antagonismi netti ed escludenti. Il termine ha sostituito la più tollerante accusa di dietrologia, destinata fino a qualche tempo fa alle interpretazioni dei fatti ritenute, a torto o a ragione, contorte o inverosimili. Ma già nel confronto pubblico è frequente il ricorso alla critica ad hominem, l’artificio retorico che per contestare un’opinione, anziché controargomentarla, attacca personalmente chi la sostiene. La differenza con i “complottisti di una volta” è che adesso alla categoria non appartengono più soltanto i creduloni e i paranoici, ma chiunque cerchi di superare la logica binaria del “con me o contro di me”. Una logica odiosa perché non fa distinzioni, riducendo ad un blocco indifferenziato (in altra circostanza fu definito accozzaglia) il pluralismo delle opinioni “altre”, disomogenee, imprevedibili e magari controverse ma proprio per questo anche di stimolo per il pensiero. Questo disconoscimento delle differenze mortifica in radice ciò che, nello spirito dell’illuminismo di cui ci dichiariamo ancora eredi, caratterizzava non solo l’individuo come soggetto libero e dotato di ragione ma anche fiducioso, nella certezza dei suoi diritti inalienabili, di incidere nella società, di chiedere e di trovare le corrispondenze tra l’individuale e il collettivo anziché il precipitato dell’obbedienza e di partecipare alla costruzione della polis, anche oggi nella sua configurazione globale. Quanto di politicamente personale ancora rimane?