STORIA E SPECCHI
Un’opera quasi irrappresentabile, un testo quasi inconcepibile nella stratificazione dei nomi, delle epoche, degli eventi e soprattutto delle maschere. A Dürrenmatt l’idea di scrivere Achterloo. Commedia venne quando il 13 dicembre 1981 il generale polacco Jaruzelski proclamò la legge marziale, anche con l’intento di scongiurare una possibile invasione da parte dell’Unione Sovietica. Ma è soltanto uno spunto iniziale, a partire dal quale Dürrenmatt fa interagire in un esplicito gioco di ruoli personaggi storici di varie epoche, mentre il drammaturgo Georg Büchner, o qualcuno che si crede lui, sta scrivendo per loro il copione che dei folli interpretano sulla scena, a volte rispettando il testo ma più spesso inventando. Appaiono così, nell’ordinato caos della vicenda europea, Napoleone, Giovanna D’Arco, Fouché, Robespierre, Giovanni Hus, due Karl Marx, Richelieu, Woyzeck, vari papi, Benjamin Franklin, Cambronne…
Tutti nomi di potenti e di ribelli che confermano come «l’individuo non [sia] che la schiuma di un’onda» (in Teatro, a cura di Eugenio Bernardi, Einaudi-Gallimard, Torino 2002, p. 1107) poiché a condurre la storia umana sono le grandi strutture culturali, politiche ed economiche che un individuo può solo cercare di comprendere per accoglierle o per rifiutarle. Ma nessuno può astrarsi dalla propria Umwelt.
I riferimenti ai fatti polacchi del 1981, a ciò che li precede e che li segue, sono oggi in buona parte o poco perspicui o caduti ma, come sempre in uno scrittore di grandissima intelligenza come Dürrenmatt, è la dimensione visionaria che rende anche questo testo coinvolgente. Un’espressione quale «oggi siamo in grado di costruire una gabbia da cui è impossibile evadere» (Ivi, p. 1135, frase pronunciata da Richelieu) è molto più vera per il presente virtuale/digitale del XXI secolo che per gli anni Ottanta del Novecento, così come l’intuizione dei processi futuri – e oggi presenti – di ibridazione tra il corpomente umano e i computer: «Il computer, liberato dall’uomo suo creatore, è il senso ultimo dell’uomo; in esso l’uomo trova il suo perfetto compimento. […] Il rosso sanguigno del tramonto verso il quale, divenuta ormai superflua, l’umanità si avvia barcollando, per dissolversi in esso, è nello stesso tempo il rosso di un’alba da cui, come da un bagno di fuoco, sorgerà la nuova umanità, l’umanità dei cervelli artificiali» (Ivi, pp. 1152-1153).
La dimensione distopica di tale progetto è mostrata da uno dei più attenti sociologi contemporanei, secondo il quale l’ontologia della Rete consiste nel fatto che «le macchine IA non ‘pensano’, operano» (Renato Curcio, Sovraimplicazioni. Le interferenze del capitalismo cibernetico nelle pratiche di vita quotidiana, Sensibili alle foglie, Roma 2024, p. 68) e questo significa «che ciò che il dispositivo comunque e in ogni caso non può fare è proporre una risposta ‘intelligente’. E cioè una risposta creativa, non prevista o non desiderata nei magazzini in cui sono stoccati i suoi dati di riferimento o nei cloud di computo, assemblaggio e d’indirizzo. Una risposta che nasca da associazioni non consuete, improbabili, proiettate a suggerire un mutamento del sistema» (Ivi, p. 68) e non a ribadire l’ineluttabilità dell’esistente attraverso il crisma algoritmico.
Strumento molto utile per ottenere tale passività del pensare (e dunque dell’agire) è la linguistica computazionale, la quale cerca di rimodellare e tradurre i linguaggi ordinari delle persone umane in linguaggi comprensibili e manipolabili dai software, in questo modo interferendo con i linguaggi e con i comportamenti che ne scaturiscono. Un esempio è il linguaggio politicamente corretto, definito da Curcio «l’ipocrisia istituzionalizzata», linguaggio che ha l’obiettivo di riprodurre l’esistente e rendere impossibile immaginare e organizzare «prospettive aperte, creative e istituenti» (Ivi, p. 92).
In questo senso i controlli linguistici che le piattaforme politicamente corrette operano contro parole, espressioni e concetti non coerenti con l’ideologia dominante del liberismo flussico costituiscono l’espressione non di intelligenze artificiali ma di stupidità e passività artificiali.
Di fronte alla insignificanza dell’umano appare, come spesso in Dürrenmatt, la potenza del cosmo, rispetto alla quale noi siamo niente; appare la potenza del nulla verso cui ogni cosa esistente si dirige, il dissolversi di tutte le strutture, poiché – davvero – «un mondo che non dovesse mai finire sarebbe un inferno» (Achterloo, p. 1194).
E anche in Achterloo, in questo dramma e commedia interamente storici, appare la diffidenza di Dürrenmatt verso ogni autorità, il suo rifiuto. Giovanni Hus ammette di non aver compreso «che la riforma di un sistema sbagliato non fa altro che aiutare questo sistema a sopravvivere per chissà quanto tempo ancora. Tutto questo per via di quel maledetto rispetto per l’autorità che ci è stato inculcato dall’apostolo Paolo» (Ivi, p. 1179).
Lo stesso autore paragona giustamente Achterloo «a un disegno di M.C. Escher, o a una stanza degli specchi con specchi a diverse sfaccettature» (Ivi, p. 1260).
Con questo testo Dürrenmatt concluse nel 1983 la sua attività di drammaturgo. Nelle pagine di questa ‘commedia’ lo scrittore ribadisce «quanto sono stupidi gli uomini, quanto sono stupidi», quanto vano sia «cercare il senso di quella follia che è l’uomo», quanto poco valga «la bestia [che] si chiama umanità» (Ivi, pp. 1162, 1151 e 1106), un animale che costituisce probabilmente una delle direzioni cieche dell’evoluzione biologica. E anche questo può aiutare a comprendere perché mai la storia umana sia così tragica.