EPIDEMIA E CADUTA
Il disastro dell’esistenza e la gloria di dominarla stanno al cuore de La Chute di Albert Camus (Gallimard, 2022; prima edizione 1956): «Le jour venait doucement éclairer ce désastre et je m’élevais, immobile, dans un matin de gloire» (p. 109).
Questa la tonalità, il suono, il significato della conversazione che in varie sere e notti Jean-Baptiste Clamence conduce con il suo interlocutore incontrato in un bar di Amsterdam, il Mexico-City. Ex avvocato del foro parigino, ora Clamence ha dato a se stesso la funzione e l’incarico di essere un «juge-pénitent» (12), un uomo che confessa di continuo di essere un dissoluto, un narcisista, un ipocrita, - un uomo ‘immorale’ insomma - ma lo fa in modo tale da costringere coloro che lo ascoltano ad ammettere la propria colpevolezza.
Questo debosciato sa che la radice di ogni possibile gioia sta nella «chair, la matière, le physique», ogni soddisfazione affonda nella pienezza del corpo (32).
Questo psicologo sa che gli umani sono delle creature strane e miserabili, che il motore dell’azione umana è la noia, per sfuggire alla quale essi creano «une vie de complications et des drames. Il faut que quelque chose arrive, voilà l’explication de la plupart des engagements humains. Il faut que quelque chose arrive, même la servitudes sans amour, même la guerre, ou la mort» (41), la stessa noia che costituisce uno degli esistenziali più profondi e più potenti analizzati da Heidegger in Essere e tempo.
Questo teologo sa che «la seule divinité raisonnable» è «le hasard» (84), i veri signori dell’Intero sono il caso e la necessità, che costituiscono due declinazioni della stessa potenza; e sa anche che «Dieu n’est pas nécessaire pour créer la culpabilité, ni punir» (116), sa che non è necessario un dio irato; che quanto chiamiamo colpa, male, punizione e dolore è un frutto inevitabile della ζωή, della vita in quanto tale; sa anche che gli umani sono assai abili a far nascere, senza l’aiuto di alcun dio, imperi e chiese sotto il sole della ferocia e della morte.
Questo politico sa che una tendenza immensa e innata della nostra specie, l’unica forse capace di spiegare la storia, è il servire, è l’istinto gregario, l’obbedire a poteri cupi o melliflui, tirannici o democratici, che si proclamano indispensabili portatori di salute e di benessere; Clamence ritiene indispensabile la consolazione della servitù e afferma che il destino ultimo della società umana è esattamente il suo primo stadio, la schiavitù. Probabilmente oggi - negli anni Venti del XXI secolo, gli anni dell’epidemia occidentale - è arrivato il momento che Camus nel 1956 chiamava il futuro della sottomissione felice: «L’esclavage n’est pas pour demain. Ce sera un des bienfaits de l’avenir» (143). La schiavitù è in effetti diventata per molti un beneficio, una benedizione, un’agognata espressione di sicurezza e salute.
Quest’uomo sa che se c’è una cosa che gli altri umani proprio non perdonano è «vivre pleinement et dans un libre abandon au bonheur», è il fatto di apparire ed essere felici (84).
Questo filosofo sa che tutti si ritengono innocenti del male della storia universale e della propria storia ma che invece «nous pouvons affirmer à coup sûr la culpabilité de tous» (116), la colpa abita nell’esserci, e che se si dà una forma di innocenza, un’espressione della grazia, una pratica di salvezza, questa è la conoscenza: «j’ai cependant une supériorité, celle de le savoir» (146), confermando in questo modo la propria Gnosi.
Gnosticismo che si palesa nel titolo stesso del libro, «la caduta», e che ha una sprezzante manifestazione nel riso ascoltato da Clamence in una notte parigina, attraversando un ponte dal quale qualcuno si lancia dentro il fiume e la cui salvezza «il est trop tard, maintenant, il sera toujours trop tard. Heuresement !» (153).
Odiatore degli antri, delle caverne, dei sotterranei e dunque delle tenebre, questo narratore ama invece le altezze, le vette, la luce, «ce que j’aime la plus au monde, c’est la Sicile, vous voyez bien, et encore du haut de l’Etna, dans la lumière, à condition de dominer l’île et la mer» (48-49).
Questa luce, quest’altezza, questa salvezza sono lo spazio della filosofia mediterranea, del nostro essere, del nostro pensare. Specialmente ora che le forme del fanatismo e della tirannide sanitaria cercano di imporre l’oscurità e l’oblio sui propri crimini.