A FRANCOFORTE! A FRANCOFORTE!
È ironia della sorte che la città dove ha sede la Banca Centrale Europea, uno degli apparati tecnocratici più influenti sulle vite dei cittadini del Vecchio Continente, e anche la più infausta, sia la stessa dove dal 1923 del secolo scorso - esclusi gli anni oscuri del nazismo - risiede l'Istituto per la Ricerca Sociale, più noto, appunto, come Scuola di Francoforte.
Intorno alla figura di Max Horkheimer, che ne assunse la direzione nel 1929, si forma il primo gruppo interdisciplinare di ricerca, nel solco del pensiero marxista della sinistra hegeliana ripensato con l'apporto della psicanalisi, con l'obiettivo di indagare le ragioni che stavano innervando di istanze autoritarie la società contemporanea, compresi ampi strati della classe operaia e le fasce sociali più deboli. Insieme a quello di Horkheimer, i nomi di Theodor W. Adorno, Walter Benjamin, Erich Fromm, Herbert Marcuse, per citare solo gli esponenti più noti, appartengono ad un milieu in cui si sono riconosciuti, oltre ai movimenti della contestazione giovanile del Sessantotto e degli intellettuali della controcultura, ampi settori della sinistra d'opinione, almeno fino agli anni Ottanta. Ma sebbene l'Istituto goda ancora oggi di ottima salute intellettuale, essendo giunto alla quarta generazione di studiosi, il suo portato teorico è entrato in un cono d'ombra dopo la smentita empirica del marxismo come prassi politica.
La radicalizzazione del neoliberismo economico ha infatti progressivamente trasformato in modo capillare anche il panorama della cultura, a cominciare dai più recenti orientamenti della filosofia in ambito accademico. Il pensiero anglo americano, più adatto della tradizione continentale ad affiancare il modello epistemologico delle scienze naturali, ha fatto breccia nelle università dove, insieme alla corrente analitica, si sono affermate le discipline applicative, dalla bioetica, alla deontologia, così come le metodologie e le tecniche logico-argomentative e le cosiddette humanities. La psicanalisi è stata soppiantata dalle psicologie di indirizzo cognitivo, con la centralità dello sviluppo delle competenze, sulle quali campeggia la meta-categoria dell'apprendere ad apprendere con annesse disfunzioni; le più accoglienti teorie dell'attaccamento hanno surclassato la valenza ribelle del complesso edipico e l'obiettivo del benessere personale ha prevalso sul desiderio di emancipazione. Sul piano politico si blandiscono i diritti civili lasciando in ombra i fondamentali diritti sociali, come se gli uni potessero esistere, in pienezza, indipendentemente dagli altri.
Dell'attitudine al pensiero critico si sono dunque perse le tracce, ma in compenso disponiamo di una rinnovata compagine di tools in grado di funzionare nella logica della ragione operativa e di fornire un apparato di rimedi agli stati di sofferenza, considerati come sconfitte della capacità individuale di affermazione e di adattamento.
In questa forma diffusa di cultura, figlia della disillusione e priva di resistenza, si è perso di vista un patrimonio di idee e di prospettive di pensiero capaci di illuminare la contemporaneità e di mobilitare le energie sociali in grado di trasformarla. Di fronte alle sopraffazioni sul genere umano e alle devastazioni della natura, l'indignazione e la protesta, che pure danno importante testimonianza di sé, non riescono tuttavia a penetrare nelle fibre profonde della società schiacciata nel conformismo, la più incolore delle passioni. Declinato sul piano dell'organizzazione sociale e produttiva, il conformismo equivale alla conservazione dello status quo e al rifiuto istintivo di tutto ciò che può turbarlo. Il pensiero critico (dei francofortesi ma anche di Foucault e di Nietszche) è faticoso, dolente, paradossale, difficile da pensare e da sostenere psicologicamente. Non per caso, l'intreccio tra la cultura egemone, i tratti psichici della collettività e le forme di produzione capitalistica - questa acuta intuizione che dagli anni Trenta la Teoria Critica ha posto a fondamento dell'indagine sociale - è ancora uno strumento ben affilato per comprendere perché la paura del cambiamento sia più forte della ricerca della felicità e sovrasti per pervasività ogni altra paura. Senza andare troppo lontano basta ricordare gli slogan che rimbalzavano tra i balconi e sui social all'inizio della pandemia: Andrà tutto bene, Tornerà tutto come prima come se il "bene" e il "prima" appartenessero al mondo sognato dalla generazione del Sessantotto che adesso si fa paladina dell'ubbidienza e di altre patologie della ragione: in ordine sparso, la propaganda, il pensiero unico, il politicamente corretto, lo scientismo, la ridicolizzazione e criminalizzazione del dissenso, la costruzione della paura, il linguaggio bellico, la conflittualità sociale, la violazione di garanzie costituzionali, la democrazia svuotata. Sicuramente qualcosa è sfuggito.
L'intera storia intellettuale dei francofortesi, attraverso cesure, rielaborazioni e ritorni alle origini, ha anticipato e diagnosticato i fattori che, nelle diverse fasi di trasformazione della società capitalistica, hanno ostacolato la piena realizzazione di forme di vita universali degne di questo nome: per citarne alcuni, il rovesciamento della ragione da strumento di emancipazione in pratica di dominio sulla natura e sull'uomo che ne è parte; l'industria culturale; la reificazione come dispositivo unificante dei rapporti interpersonali; il totalitarismo della merce; i tratti della futura (allora!) società amministrata; gli effetti nefasti dell'antagonismo e della competitività come nascondimento dei desideri autentici; il restringimento della ragione comunicativa, in grado di costruire buone collettività sull'intesa reciproca, a causa dell'intromissione dell'apparato produttivo e burocratico nella sfera sociale; la conflittualità latente alimentata dal disconoscimento delle istanze di soggettività dei più deboli; l'accelerazione come radice dell'alienazione; il ritorno della centralità del lavoro nelle sue molteplici forme frammentate e precarizzate.
E se tutto ciò non fosse una ragione sufficiente per recuperare la forza del pensiero critico e la sua carica negativa, lo saranno forse le parole di Horkheimer che racchiudono l'intera ragion d'essere dell'Istituto per la Ricerca Sociale: "la filosofia deve opporsi alla frattura tra idee e realtà; essa confronta l'esistente, nel suo contesto storico, con i suoi princìpi concettuali, al fine di sottoporre a critica il rapporto tra gli uni e gli altri e così trascenderli" (Eclisse della ragione).
A Francoforte, dunque. A Francoforte!