BUON CENTENARIO MANLIO!
Ricorrono quest’anno i cento anni dalla nascita e i dieci dalla morte del filosofo Manlio Sgalambro. Pensatore monolitico, quasi minerale in tempi fluidi, Sgalambro è un personaggio fascinosamente contraddittorio. Ha passato i primi sessant’anni della sua vita senza, potremmo dire, possedere una biografia. Nessuna laurea, nessun lavoro, nessuna cattedra, nessun libro edito, nessun ruolo di potere culturale, foss’anche locale. In un mondo che briga, spinge e si arrampica lui restava immobile: per sessant’anni solo studio e letture, prima nella assolata Lentini e poi nella scura Catania.
Ma neppure lo stereotipo del pensatore solitario che sfugge i rapporti umani per darsi alla contemplazione monacale funziona. La moglie e i suoi cinque figli ne sono testimonianza (testimonianza ben strana per un autore intriso di pessimismo e venato di antinatalismo). Forse ha fuggito più la società, nelle sue forme più o meno istituzionalizzate, che la relazione in sé.
Questa lunga apnea da cetaceo filosofico, appena interrotta lungo i decenni, forse per prendere fiato, da alcuni smilzi articoli (tali da contarsi sulle dita di una sola mano) finisce quando Sgalambro emerge in superficie con tutta la mole della sua grande prima opera: La morte del sole. Lì appare la forza di chi, proprio per la sua posizione liminale e appartata, aveva potuto meditare per decenni sulla filosofia. Se secondo un’antica analogia i filosofi sono coloro che guardano e non coloro che vendono, comprano, gareggiano sul proscenio del mondo, Sgalambro si è potuto permettere il lusso di essere spettatore (spesso perplesso e beffardo) anche degli stessi filosofi.
Dopo questo esordio arriveranno altri libri: spiazzanti, radicali, inattuali e affascinanti. Libri sulla teologia, sul comunismo, sulla vecchiaia, sulla società, sulla consolazione in cui questi argomenti divengono rapidamente il proprio opposto, restano ma deformati o negati.
Poi, questo meravigliosamente solitario, elitario, altezzoso, raffinato autore (come erano del resto le tre case editrici, una grande e due minuscole su cui esclusivamente pubblicava) passava, pur non abbandonando la filosofia, ai libretti d’opera, ai dischi, alle tournée, ai film, ai programmi televisivi, persino alle cover (il suo disco Fan Club) e a tutto ciò che a entrambi suggeriva la sua collaborazione con Franco Battiato. L’irruzione di Sgalambro nel mondo dello spettacolo fu accolta da alcuni come uno scandalo. Alcuni di coloro che lo apprezzavano come filosofo e che trovavano normale che altri filosofi (per giunta cattedratici) passassero le serate in orridi talk show ad accapigliarsi con altri ospiti trovarono però poco opportuno, chissà perché, che Sgalambro aiutasse Battiato nella costruzione dei suoi piccoli gioielli musicali. Eppure, a seguire il profondo antiaccademismo sgalambriano, appare ovvio come non vi sia alcun motivo per preferire un seminario a un palco.
La vita filosofica di Sgalambro, così lenta, assorta nella contemplazione delle opere filosofiche, (“l’incontro con un libro deve poter essere l’ultimo affinché tutta la faccenda conservi un senso”, L’illusion comique, p. 21), così poco franta di fronte all’infinito chiacchiericcio dei congressi e delle pubblicazioni tirate via per far numero, fa sembrare l’intervallo di cent’anni dalla sua nascita fin troppo breve. Al contempo, a leggere le sue pagine, dieci anni dalla morte sembrano fin troppi tanto la radicalità del suo sguardo fa pensare che questo decennio ben poco avrebbe potuto sorprenderlo. Non abbiamo la presunzione di dare per certe quali sarebbero oggi le posizioni di Sgalambro su società e politica, ci limiteremo ad alcune citazioni che sembrano riguardare da presso alcune questioni degli ultimi anni per dare un’idea al lettore della sua forza contundente e del vantaggio assicuratogli dal suo pessimismus e per celebrarlo con una minuscola e parziale (in vari significati del termine) antologia.
Così, ad esempio, nel 1994 scriveva sulla salute come forma politico-sociale: “Da quando la salute è diventata una questione sociale, l’individuo ha perso i suoi diritti su di essa. È la società a stabilire la malattia e la guarigione” e poche righe dopo “naturalmente da quando la salute diventò una questione politica tutti furono malati. Con la salute (con questo concetto di salute) si introdusse nel mondo la malattia. E fu sancito che nemmeno la guarigione, tutto sommato, riguardava il malato, ma concerneva le leggi e la società. (…) Tutto deve dimostrare che l’individuo è “imperfetto” e che quindi ha bisogno della politica. E ne avrà bisogno per sempre. Corri dunque nel tuo lettuccio, raccomanda la politica. Ma io do retta a un altro consiglio: ‘Non sai che malattia e morte devono sorprenderci mentre facciamo qualcosa?’ (Epitteto, Diatribe, III, 5)” (Dell’indifferenza in materia di società, pp. 59-60).
Neppure lo scadimento a livelli persino grotteschi della scuola, fortemente caldeggiato da ogni ministro intento a perfezionare i danni del predecessore, lo avrebbe sorpreso troppo. Così scrive nel 1995: “Forti coscienze, individualità spiccate, “geni” (…) metterebbero infatti a repentaglio il senso comune della vita e minaccerebbero da vicino l’autoconservazione. La scuola deve quindi abbassare l’intelligenza e insegnare, come fa, a stare tutti appiccicati assieme. (…) Chi “insegna” (…), insegna di fatto solo “socialità”. (…) La distruzione di ogni concetto di verità è invece il suo compito, la noia per la bellezza è quello che deve assolutamente istillare, pena i pericoli che possono venirne per intere generazioni”, (Dialogo sul comunismo, pp. 31-32).
E per chiudere idealmente in musica, citando dalla canzone Ermeneutica (dall’album Dieci stratagemmi) del 2004, vien da pensare che se Sgalambro tornasse adesso avrebbe bisogno di poco tempo per farsi un’idea sulle recenti vicende belliche e geopolitiche. Il testo di Ermeneutica in una strofa recita: “Eiacula precocemente l’impero / Ritorna il circolo dei combattenti/ Gli stati servi si inchinano a quella scimmia di presidente / S’invade si abbatte si insegue si ammazza il cattivo / Si inventano democrazie /.”
Ma al di là del gioco dei rimandi decontestualizzati rimane di Sgalambro il suo radicamento al pessimismo come grande tradizione filosofica, il suo disprezzo per i potenti, il suo rifiuto di ogni melassosa conciliazione, la sua dedizione alla forma e all’opera. Da vivo una seducente proposta filosofica, oggi quasi un presidio, una scorta, un polmone teoretico in tempi come questi: stucchevoli, omiletici e insinceri.