IL NETTURBINO DELLA SALVEZZA
È molto precisa e circostanziata la definizione che formula Gianluca Cuozzo dell’immondizia, della spazzatura o, detto in termini spregiativi e perciò richiamanti alla colpa, della munnezza. Il rifiuto è il «non-appropriabile per eccellenza», il «controcanto osceno della produzione e del consumo», esso «scardina l’immagine precostituita del mondo dato avanzando una riserva di senso – l’inadempiuto – che non aveva avuto spazio nell’orizzonte istituito dal progetto d’ordine» (G. Cuozzo, Filosofia delle cose ultime. Da Walter Benjamin a Wall-E, Moretti&Vitali, Bergamo 2013, p. 25). In questo senso, la spazzatura è portatrice sana e feconda di utopia, poiché intrinsecamente alla sua essenza giace una carica di senso eversiva in grado di scardinare il continuum storico del progresso, con la propria presenza scandalosa e peccaminosa, e di irrompere nelle strutture semantiche consolidate per prefigurare qualcosa d’altro, che poteva essere ma che non è più, che ha ancora qualcosa da significare ma che è strozzato, ridotto all’asfissia, peggio compattato e ridotto in poltiglia, mummificato nella terra stratificata e pressurizzato in discarica. È in quest’ultima che va trovata la chance della salvezza, va ricercata, diciamolo meglio, la ferita da rimarginare per il condono esistenziale dalla propria colpa, più esattamente dalla colpa della produzione e della scorificazione universale.
Quello auspicato è un mondo della pienezza, in cui la possibilità abortita di felicità possa prendere nuovamente forza, placare il vento impetuoso che spirando dal paradiso si impiglia tra le ali dell’angelo benjaminiano della storia impedendogli qualunque intervento redentivo. Sostituire, insomma, al «folle accumulo delle inutilità e obsolescenze programmate in un’economia della ridondanza e dello spreco» (p. 35) un’ontologia dell’esistente in grado di far fronte allo scarto di se stessa, che non spreca ma ritrova, che non dimentica ma ricorda: un mondo in cui gli oggetti siano il riflesso positivo del rispetto esistenziale e mondano. Il pericolo da evitare è l’affermazione del paradigma opposto, quello della produzione spasmodica e ipertrofica il cui punto d’arrivo obbligato diventa la riduzione dell’uomo a Ding, la reificazione a mera cosalità in cui l’umano è sopraffatto dai suoi stessi oggetti, inghiottito nella produzione vorticosa che inabissando il creatore eleva al cielo cataste di immondizia senza fine. Quella che Serge Latouche chiama senza giri di parole le follie usa e getta della società del consumo.
Il processo irresistibile della produzione consumistica e della generazione del vacuo, che finirà immancabilmente per essere sprecato, costituisce la cifra ansiogena e perturbante del mondo contemporaneo, a cui, in vista di una redenzione della colpa e della malaessenza (per dirla con Heidegger), è necessario ristabilire l’equilibrio tra ciò è mondo e ciò che non lo è, ciò che danna e ciò che invece conduce al riscatto del peccato di produrre e di incrinare l’equilibrio profondo dell’intero sistema-ambiente.
Il cambiamento di paradigma passa dunque per i luoghi dell’oblio, della colpa e del peccato, i cimiteri del tempo oggettuale perduto, l’inconscio dei sogni crollati: le discariche. Discariche che non sono i luoghi infernali in cui l’inservibile e l’osceno trovano ricetto spaziale. Discariche, soprattutto, in senso figurato, allegorico: le discariche delle intenzioni materiali cessate, che acquistano realtà tanto nel cestino sotto la propria scrivania quanto negli imponenti Lager urbani ed extra-urbani in cui si depositano gli scarti, l’indesiderabile, ciò che non fa più parte del progetto di senso di una civiltà. I rifiuti, e i luoghi che li ospitano, rappresentano quindi la riconfigurazione errata della redenzione, il riflesso opaco delle cose salvate, che nella stasi altrettanto colposa della discarica trovano la propria condanna definitiva travestita da apparente rappacificazione ontologica. Una civiltà che rappacifica i propri scarti rappacifica se stessa. Il percorso opposto vuole invece che i rifiuti, «da strumenti dell’ideologia tecnocratica», «si sono trasformati in allegorie frante della salvezza, al di là di ogni fede nel progresso: indici inappagati di una tensione utopica che ancora si agita al fondo di quel grande immondezzaio in cui si raccolgono i sogni spezzati dell’uomo» (p. 107). Spezzati, ma non estinti, nei cui riguardi il vero peccato sarebbe ritenere che la loro eliminazione, forzata e priva di riflessione sull’impatto civile e ambientale, sia un effetto collaterale inaggirabile dell’esistenza. I rifiuti sono l’immagine più reale del negletto, dal punto di vista sia del senso sia dello scopo, i quali, nel loro rimandare a un significato ulteriore, richiamano altresì a un altro piano dell’agire.
Il netturbino della redenzione fa quindi come il Narratore della Recherche: instaura legami, intravvede nessi, scopre connessioni assolutamente insperate, che rivelano un progetto della salvezza nascosto tra gli anfratti della materia più umile e apparentemente infeconda, come un biscotto che squaderna un’intera vita davanti alle porte dei nostri sensi. Il passato e il presente possono essere riscoperti come facenti parte di un’unica intenzione redentrice, un tempo attuale che rivede in un passato del senso, della funzione e dello scopo ritenuto morto e obliato la premessa per un futuro appropriato, riconsegnato al significato e alla pienezza, nell’esatto modo in cui l’héros della Recherche, a partire dall’estasi materico-temporale scatenata dalla memoria e dalla percezione presente, ritrova la durata piena della vita, riconsegnandola a una dimensione ulteriore: il senza tempo dell’arte, della letteratura che trasfigura l’esistenza in un paradiso di luce.
La salvezza dello scarto, e quindi la salvezza dell’umano, passa interamente dal ricordo dell’immondo, il cui senso viene interrotto da un oblio colposo, irresponsabile e peccaminoso: il risveglio di una vocazione, che è la riparazione della ferita dell’esserci, del singolo, delle azioni individuali, ma che è lo schema teorico e pratico insieme della riparazione di tutto il mondo.