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POVERI

«Lo spettacolo di Antonio Latella è strutturato in sette quadriglie, quattro nella prima parte e tre nella seconda. A turno, gli attori interpretano i ruoli del Povero, del Poliziotto, del Muto e del Cavallo. La rotazione avviene quando qualcuno dei personaggi pronuncia la parola segno».

Così il Programma di sala (p. 7) sintetizza quanto avviene sulla scena. È esatto ma c’è molto altro. Zorro è infatti la testimonianza di un fallimento e di un vicolo cieco. Latella e Bellini appaiono alla disperata ricerca di un modo, di tanti modi, per migliorare il mondo. Da teatranti lo fanno con la parola del testo e con il corpo dei quattro attori. I quali sono abbigliati alla Elvis e uno (Isacco Venturini) è anche un ottimo cantante. Tutti si mettono a ballare musica pop appena uno di loro pronuncia inavvertitamente la parola «segno». Il segno di Zorro, la Z. Balli un poco patetici, a dire la verità. Nelle varie scene/quadriglie gli attori si scambiano appunto i ruoli ma pronunciano sempre lo stesso tipo di discorso, oscillante (anche paurosamente) tra la satira, la denuncia, il turpiloquio, l’omelia.

Torna soprattutto ossessiva una parola, che è la parola di questo spettacolo: povero. ‘Povero’ e ‘poveri’ verrà pronunciato centinaia di volte. Una sola volta, invece, se ho seguito bene, viene enunciata la parola ‘proletari’. Quest’ultimo termine indica una condizione di classe determinata dai modi di produzione e dai rapporti produttivi. È parola quindi politica ed economica. ‘Povero’ invece è un antico termine intriso di moralismo e buoni sentimenti. Una parola non soltanto del tutto innocua ma, assai di più, una parola complice dell’iniquità.

Essa fa appello al sentimento, alla solidarietà, alla compassione, vale a dire all’impolitico, a ciò che denuncia e non trasforma. E infatti si parla in modo esplicito di Francesco d’Assisi. E già il Rabbi affermava che «i poveri li avete sempre con voi e, quando volete, potete fare loro del bene», aggiungendo saggiamente – di fronte allo scandalo dei bigotti e dei buoni per una donna che utilizza del costosissimo unguento allo scopo di profumare la testa del Maestro – «me invece non mi avete sempre» (Mc, 14, 7). Poveri è una parola del capitalismo, della Caritas, delle Dame di San Vincenzo. Capitalismo, Caritas e Dame di San Vincenzo che vengono ampiamente ‘denunciate’ nel testo di Latella e Bellini.

Testo apparentemente assai duro verso l’‘esclusione’ ma che non pronuncia mai la parola ‘sfruttamento’.

Testo e messa in scena che arrivano allo scandalo (ah, i brividi!) di mostrare per una decina di minuti il pene nudo di uno degli attori, ovviamente nella parte del ‘povero’. Testo che utilizza e normalizza ciò che fu l’avanguardia, ad esempio insultando apertamente il pubblico milanese, il quale ride e alla fine abbondantemente applaude. Testo che se nella prima parte è anche una sorta di avanspettacolo condito da belle canzoni (tra le quali I Will Survive di Gloria Gaynor) e da battute divertenti, dopo l’intervallo si trasforma in una truce e insostenibile socialpredica che vuole trasmettere il suo nobile ‘messaggio’ a favore dei poveri.

È il fallimento del teatro di denuncia ed è il vicolo cielo del politicamente corretto, incapaci di una comprensione del mondo, delle situazioni politiche nelle quali siamo immersi, e in grado di produrre soltanto appelli moralistici e sentimentali.

Si srotola dunque, nelle quasi tre ore di durata dello spettacolo, un elenco parziale ma nutrito della sensibilità verso l’esclusione, che in verità mescola, confonde, manipola e quindi sostanzialmente dissolve le realtà che vorrebbe denunciare: i poveri mendicanti che si aggirano dentro la Stazione Centrale di Milano (che in realtà è abitata da tempo da non poveri delinquenti di varia provenienza); i poveri che attraversano il mare, definiti «turisti che hanno sbagliato spiaggia», ai quali gli egoisti italiani vorrebbero negare l’approdo; le povere donne sempre vessate dall’onnipotente patriarcato (qui basta la parola); LGBTQ+ ai quali vengono negati diritti e voce. Certo a proposito di questi ultimi si aggiunge ironicamente che la formula LGBTQ sta subendo estensioni per le quali «non basta più l’alfabeto». Ed è un esempio, questo, di un testo e di una messa in scena che cercano di strizzare l’occhio al pubblico, perché è anche molto attuale, molto postmoderno, che non ci siano fatti oggettivi e tutto, in fondo, possa essere interpretato come si vuole.

Questo semplice elenco testimonia di un’operazione cerebrale, fredda, progettata per scandalizzare una classe borghese che più non esiste, annegata anch’essa nella melassa del conforme, trasformata come ogni altro ceto in carne da televisione, chiamata a indignarsi a comando e a recitare il necessario rosario del proprio pentimento. Beati pauperes spiritu (Mt, 5,3), la cui povertà non è però quella dello spirito che accoglie il regno dei cieli ma è la povertà della mente che accoglie il regno di legittimi desideri individuali trasformati in meno legittimi diritti dell’uomo universale, il quale ovviamente non esiste, essendo un fantasma del capitale.

Il Pinocchio messo in scena da Latella qualche anno fa partiva da una consonanza tra il personaggio di Collodi e Sisifo; un’ipotesi intrigante ma che veniva smarrita nel caricare il testo di numerosi materiali linguistici e cerebrali, i quali stemperavano il calore della tragedia nel gelo di un progetto troppo consapevole. Un eccesso soprattutto di psicoanalisi che, come spesso accade, spalma sulla densità del mito la superficialità della psicologia. Allo stesso modo, in questo nuovo spettacolo Zorro e i supereroi suoi successori vengono uccisi dalla superficialità del politicamente corretto, in uno spettacolo che è anche una parodia del postmoderno, si direbbe uno spettacolo postpop che nell’apparente denuncia in realtà è complice.

 

Piccolo Teatro Grassi - Milano

Zorro di Antonio Latella e Federico Bellini

Con: Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini

Regia di Antonio Latella

Sino al 16 febbraio 2025