L’IMPERIALISMO DEGLI USA E LA SCONFITTA DELL’OCCIDENTE
Per capire che la politica imperiale e imperialistica degli USA ha una lunga storia, basta leggere qualche romanzo di Graham Greene (1904-1991). Che non fu soltanto romanziere (prima era stato redattore del “Times”, da cui andò via nel 1929 per dedicarsi interamente all’attività letteraria). Ma fu un breve addio. Greene vi tornò infatti nel 1935 come inviato speciale, viaggiando in tutto il mondo e rimanendo a lungo in Indocina. Durante la seconda guerra mondiale collaborò attivamente col controspionaggio britannico.
Noto specialmente per il romanzo “Il terzo uomo”, «scritto – sostiene Greene nella Premessa al romanzo – non per essere letto, ma soltanto per essere veduto», essendo nato come sceneggiatura per il film omonimo del regista Carol Reed con interpreti di rango (vi recitarono Orson Welles, nel ruolo del “cattivo” americano, Joseph Cotten, Alida Valli, Trevor Howard), e solo dopo diventato romanzo, Greene mette spesso a nudo i maneggi internazionali del sovrano americano. Lo fa anche nel romanzo “L’americano tranquillo” (1955), ambientato durante gli ultimi giorni della dominazione francese in Indocina (in quel Vietnam che, alcuni anni dopo, diventerà il pantano della disfatta militare degli USA – tornerebbe utile, di tanto in tanto, ai filo-atlantisti più sfegatati rivedere “Il cacciatore”, 1978, di M. Cimino). Protagonisti sono il giornalista inglese Thomas Fowler, oppiomane, miscredente, armato di cinismo e sarcasmo, qualità che ha affinato nella lunga esperienza di inviato sui fronti di guerra dove ha spesso visto la morte con gli occhi, e un funzionario americano della Missione per gli Aiuti economici, di nome Alden Pyle (ma Fowler lo chiama sempre per cognome, pur essendo, i due, diventati amici). Il giovane Pyle è, al contrario di Fowler, animato da una granitica fede negli ideali del “sogno americano” e dalla assoluta sicurezza circa la legittimità della presenza degli Stati Uniti nei punti caldi del mondo.
Persuaso della necessità di conquistare l’Oriente alla Democrazia, Pyle non aveva esitato a rendersi complice di una serie di sanguinosi attentati, la cui responsabilità sarebbe dovuta ricadere sui comunisti, ormai alle porte di Saigon. Questo “piccolo gioco”, all’interno del “grande gioco” che gli Stati Uniti svolgono nel mondo dai tempi della Guerra fredda (e che ancora, imperterriti, praticano), costerà caro a Pyle, che verrà assassinato in circostanze misteriose, sulle quali indagherà Fowler.
Che l’atteggiamento degli USA verso gli altri Paesi sia stato ben presto imperiale e imperialistico lo dimostra la loro storia, per quanto breve essa sia. Nondimeno, Pino Arlacchi, in un articolo apparso sul «Fatto Quotidiano» del 14 gennaio scorso, sostenendo che «con Trump, l’America torna alle sue radici profonde», ha tenuto a precisare che esse «non sono imperiali nel senso di una pretesa di governo del pianeta, ma coloniali. La differenza tra imperialismo e colonialismo non è di poco conto. L’imperialismo è universale. Il colonialismo è nazionale. Con tutta questa storia di annettersi Canada, Panama e Groenlandia – di dare magari un colpetto al Venezuela che “siede su una montagna di petrolio che noi dobbiamo pagare” – Trump non sta facendo altro che richiamare in vita l’istinto di predazione del loro continente che ha mosso i suoi primi predecessori […] massacrando i nativi, invadendo o annettendo territori altrui come nel caso del Texas, del New Mexico, della California e delle Hawaii, comprando interi Stati dalle potenze europee, come nel caso della Louisiana, della Florida, dell’Oregon e dell’Alaska, o stabilendo con la forza proprie colonie e avamposti nel canale di Panama, nelle Filippine e a Cuba. Solo per poco non riuscirono ad annettersi anche il Canada».
Anche il recente libro “best seller” dello storico, politologo e antropologo francese Emmanuel Todd, «La sconfitta dell’Occidente», Fazi 2024, pp. 356, € 20,00, dedica un ampio capitolo agli USA, alla loro politica imperialistica e alle diverse forme da essa assunte nel tempo fino all’attuale, legata strettamente al declino della classe dirigente. «Tra il 1945 e il 1965, gli Stati Uniti erano guidati – sostiene Todd – da un’élite omogenea, coerente e rinsaldata da legami personali; essa conservava ciò che il protestantesimo aveva di buono, controllandone gli aspetti peggiori; si sottometteva, come il resto della popolazione, a una morale comune, accettando il servizio militare, l’“impȏt du sang” e, in generale, le tasse; portava avanti una politica estera responsabile incentrata sulla difesa della libertà, eccezion fatta, va ricordato, per l’America Latina, il cortile di casa degli Stati Uniti, dove si poteva dare libero sfogo ai peggiori istinti che l’uomo sempre inguaribilmente si porta dietro. Oggi, il villaggio di Washington non è altro che un insieme di individui completamente privo di una morale comune», dove «bianchi, neri, ebraici e asiatici sguazzano insieme nel bagno di denaro e potere». Privi come sono di un sistema di «valori esterni e, soprattutto, superiori: religiosi, morali o storici» e spinti solo da «una dinamica di puro potere che, proiettata sul mondo esterno, si tramuta in una predilezione per il potere militare e la guerra», i componenti di questo variegato gruppo dirigente «hanno un chiaro interesse personale a che gli Stati Uniti abbiano una politica globale ambiziosa. Più il governo americano è occupato all’estero, più vi sono posti da assegnare tra gli esperti di politica internazionale e più la parte della ricchezza nazionale destinata a risolvere questi problemi sarà grande, maggiore altresì sarà la loro potenziale influenza» (Stephen Walt, politologo di Harvard, citato da Todd).
«Da ciò deriva – conclude Todd – la propensione a ingigantire le minacce esterne e l’ossessione per la potenza militare. C’è interesse (professionale) a che le cose si mettano male», sia per i repubblicani neoconservatori che per i democratici, tutti «ispirati solo dalla grandezza dell’impero americano».