Aldous

Distopie

PENSIERO E TECNICISMI

Periodicamente, ma da qualche tempo con una ricorrenza sempre più fitta, si accendono vivaci dibattiti sull'utilità (i favorevoli) e sull'inutilità (i contrari) degli studi umanistici, dal latino e greco alla storia e filosofia. L'ultimo, in ordine di tempo, ha preso avvio, agli inizi di febbraio, dalla notizia della «caduta inarrestabile delle iscrizioni al liceo classico: il prossimo anno lo frequenterà appena il 5,8% degli alunni di terza media che proseguiranno gli studi». Perché «il classico non è nello spirito del tempo, secondo cui la scuola serve solo a trovare lavoro». Così ha scritto Massimo Gramellini nella sua rubrica quotidiana, Il caffè, del «Corriere della Sera» del 1° febbraio 2023. Un vero classico, il titolo del pezzo.

Poiché il dibattito in corso è ancora allo stato magmatico e in fieri, non è inutile tornare a qualche anno fa, esattamente a quasi dieci anni fa, quando un acceso dibattito si sviluppò su quotidiani e su riviste, sia settoriali che popolari, sulla ventilata ipotesi di ridurre le ore d’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori. Ad esservi coinvolti non solo i professionisti della materia, docenti universitari o intellettuali in genere, ma anche cittadini comuni con lettere ai giornali, su «La Stampa» principalmente. I favorevoli al mantenimento delle ore curricolari esistenti furono molti di più di quanti sostenevano che la filosofia valga a ben poco e pertanto ne proponevano lo studio facoltativo. Persuaso che la causa prima dell’amore o del disamore degli studenti per qualsiasi disciplina vada cercata nel professore che la insegna e nel modo in cui la insegna, con contagiosa passione o con algida formalità, sostengo, in sintonia col professor Dario Antiseri, che ne scriveva sul «Corriere della Sera» di domenica 9 marzo 2014, che la filosofia andrebbe insegnata anche negli istituti tecnici e nelle facoltà scientifiche, perché «aiuta a fronteggiare l’invasione di informazioni». Ma non solo per quello. Citando Isaiah Berlin, Antiseri aggiungeva che il fine della filosofia «consiste nell’aiutare gli uomini a capire se stessi e quindi a operare alla luce del giorno e non, paurosamente, nell’ombra». (Farà certo felice il prof. Antiseri la notizia di questi giorni – l'abbiamo letta su Orizzonte Scuola on line del 3 febbraio scorso – che «la filosofia verrà inserita nelle scuole tecniche e professionali all’interno del programma di educazione civica. È la proposta didattica intrapresa di recente da INDIRE – contenuta nel percorso PATHS (a Philosophical Approach to THinking Skills) per parole – con gli USR del Piemonte, Toscana, Molise e la Provincia Autonoma di Lingua italiana di Bolzano, in 24 istituti tecnici»).

Il progressivo smantellamento degli studi umanistici è, senza ombra di dubbio, la resa dei governi al pensiero unico dominante imposto dai poteri forti economico-finanziari, per i quali la sola libertà che conta è quella dei mercati e dell’incremento del Pil (il fenomeno è internazionale e, in primis, nordamericano, anche se una recente cronaca da New York di Massimo Basile su «la Repubblica» del 6 febbraio 2023, sotto il titolo Stati Uniti, la rivincita degli studi umanistici, riferiva che «negli Stati Uniti, dopo un lungo periodo in cui gli studenti cercavano solo materie “che facevano lavorare” e guadagnare, c'è un ritorno agli studi umanistici. Alla Berkeley University, California, una delle più prestigiose d'America, il numero degli studenti che ha scelto materie come inglese, storia, lingue, filosofia e studio dei media, è cresciuto in un anno del 121 per cento. Il numero dei diplomati che fanno richiesta di entrare a Berkeley per studiare materie umanistiche è cresciuto del 43,2 per cento rispetto a cinque anni fa, e del 73 per cento rispetto a dieci anni fa». Questo incremento si verifica anche in altre Università). Infatti, «i partigiani della crescita economica – ha scritto Martha C. Nussbaum nell’aureo libretto Non per profitto – Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2013) – non si limitano a ignorare le arti. Essi le temono. Infatti, la sensibilità simpatetica coltivata e sviluppata è un nemico particolarmente pericoloso dell’ottusità, e l’ottusità morale è necessaria per realizzare programmi di sviluppo economico che ignorano le disuguaglianze», dunque antidemocratiche.

Nel dicembre del 2013, anche Alberto Asor Rosa, Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito denunciarono, con un «Manifesto degli studi umanistici» promosso dalla rivista «il Mulino», «lo svilimento degli studi storici, filosofici e letterari, considerati sempre più alla stregua di un ciarpame inutile che deve fare spazio alle “cose serie”: le scienze naturali e matematiche, i metodi quantitativi e “oggettivi”, da privilegiare alle fumisterie inconcludenti delle scienze non esatte». (Esposito, nel febbraio del 2014, dalle colonne di «Repubblica», faceva sentire di nuovo la sua voce risentita contro una normativa che avrebbe voluto eliminare da alcune facoltà, come Pedagogia e Scienza dell’Educazione, gli insegnamenti di filosofia teoretica). Insomma, contro il tentativo di cancellare dalla scuola e dall’università la millenaria tradizione umanistica, che ha conferito all’Italia un invidiato primato nel concerto delle nazioni europee, il fronte degli intellettuali pareva, allora, presentarsi compatto.

Tra i custodi più attenti e acuti della tradizione classica spiccava, e spicca ancora, Luciano Canfora. I suoi interventi a difesa della imprescindibilità degli studi umanistici, in quanto stimolano gli studenti a pensare e a ragionare autonomamente, anziché a conformarsi alla tradizione e all’autorità, sono una presenza costante nel panorama culturale e giornalistico italiano. Per fare un solo esempio, nell’agosto del 2013, intervistato da Francesca Sironi per «L’Espresso», Canfora affermava che «la formazione classica è la più completa soprattutto perché è l’unico indirizzo in cui viene dato il giusto peso alla materia più importante di tutte per il salto nella maturità: la filosofia». Infatti, «la conoscenza del pensiero filosofico è un elemento formativo cruciale, e oggi in pericolo. Per me andrebbe insegnata al meglio anche nei tecnici, nei professionali». E alla domanda a che cosa serve il greco, Canfora puntualizzava: «Il greco è una lingua filosofica: le parole hanno molti significati, per cui bisogna mobilitare la propria intelligenza per capire qual è quello giusto rispetto al contesto. E dentro la cultura greca c’è tutto: teatro, filosofia, scienza...».

La filosofia dunque non è affatto quella cosa con la quale e senza la quale si rimane tale e quale, come vuole l’antico nichilistico ritornello. Anzi, è un argine al dilagare del tecnicismo e delle competenze specialistiche, che fanno perdere di vista la competenza più importante: essere uomini. Competenza che si acquisisce con le discipline che non per caso sono dette umanistiche o “liberali”, perché rendono l’uomo libero e consapevole di sé. Senza dimenticare che chi è capace di ragionare è utile alla democrazia e non abboccherà all’amo dei demagoghi imbonitori e dei complottisti di tutte le risme che proliferano nella galassia del web.

Certo, fare il filosofo è «un mestiere pericoloso» (così lo stesso Canfora intitolava un suo bel libretto uscito nel 2000 per Sellerio). Si corre il rischio di essere uccisi per le proprie idee, per il pensiero critico che si esercita e che si vuole insegnare ai cittadini. Perciò i filosofi danno fastidio al potere, perché non vi si conformano, ma ne denunciano le menzogne e le malefatte. Ma il potere non tollera chi gli si oppone. Lo sperimentò Socrate sulla sua pelle. Processato e condannato a morte, diventò il protomartire del libero pensiero e della coscienza soggettiva («l’“io” – ha scritto Eric A. Havelock – fu una scoperta socratica o, forse meglio, una invenzione del linguaggio socratico»). Proprio lui, che pensava che «la rigogliosa democrazia ateniese fosse un cavallo pigro, che avesse bisogno di essere pungolato senza tregua dall’acume dei suoi ragionamenti» (Nussbaum).

Tuttavia, i filosofi non sempre sono la coscienza critica della società e di rado vivono in coerenza con quanto predicano. Càpita anzi che siano dei cattivi maestri. Non solo predicano bene e razzolano male, ma diventano dei dinamitardi al servizio di poteri nefasti. Se c’è un filosofo, per esempio, che proietta fuori di sé un’ombra lunga e nera di contraddizioni, questo è Seneca. Con lui la filosofia si sporca le mani, e in modo assai compromettente, col potere. Ma non solo questo ci fu nella vita del filosofo spagnolo. Consigliere e complice del suo discepolo Nerone nell’attuazione di delitti efferati (compreso quello della madre del principe, Agrippina), Seneca si porta dietro l’accusa infamante di prestare denaro a usura. La sua vita fu dunque tutto il contrario delle teorie stoiche che predicava nei suoi scritti, in cui esortava se stesso e i suoi discepoli all’esercizio quotidiano, inesausto, della “virtus”. Che col denaro non va mai troppo d’accordo.

E pensare che Seneca ammirava il filosofo cinico Diogene di Sinope (412 – 323 a.C.), che si definiva “un cane”, perché viveva come un randagio e “mordeva” i costumi viziosi degli uomini. Di lui Seneca amava ricordare il seguente aneddoto: una volta Diogene vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani e gettò via dalla bisaccia la ciotola, dicendo: «Un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità». Che lezione magistrale di incoerenza dava Seneca al suo discepolo Lucilio (e a noi, suoi tardi lettori), mentre additava in Diogene il modello della sobrietà!

Ma Diogene, che viveva in una botte, definiva «l'avarizia la metropoli di tutti i mali» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 50) e poneva a «modello della sua vita Eracle che nulla antepose alla libertà» (D. L, ibidem, VI, 71), se la pigliava anche con Platone. Infatti, ancora Diogene Laerzio, VI, 58, racconta che «alcuni gli attribuiscono anche il seguente aneddoto. Platone lo vide mentre lavava la verdura e gli si avvicinò mormorandogli all'orecchio: “Se tu corteggiassi Dionisio [il tiranno di Siracusa], non laveresti la verdura”. Diogene gli rispose egualmente all'orecchio: “E se tu lavassi la verdura, non saresti cortigiano di Dionisio”».