Aldous

Distopie

I BENI COMUNI OLTRE LO STATO E IL MERCATO

Da sempre chi comanda, chi vince la lotta tra le nazioni o quella tra le classi, e soprattutto chi riesce ad acquisire l’egemonia culturale giustamente posta in rilievo da Antonio Gramsci, chi riesce dunque a detenere il controllo della mentalità collettiva tramite una varietà di strumenti, chi riesce in tutto questo ha l’interesse a presentarsi come l’unica prassi possibile, relegando a mera illusione ogni alternativa all’esistente. Una dinamica espressa assai bene dalla tesi della signora Margaret Hilda Thatcher, baronessa Thatcher, nata Roberts, secondo la quale «There is no alternative»», non c’è appunto alternativa (acronimo TINA).

Sembra ad esempio non esserci alternativa alla contrapposizione tra qualcosa che viene definito Mercato e qualcosa che viene chiamato Stato. O una proprietà privata che non tollera restrizioni di alcun genere, sino a voler privatizzare l’acqua, l’aria, ogni forma di energia e di vita; o un dominio dello Stato che non tollera al proprio interno differenze, molteplicità, distribuzioni diverse dei beni e delle risorse di cui i cittadini hanno bisogno per vivere. Siffatta netta contrapposizione appare a moltissimi qualcosa di naturale e invece è ovviamente del tutto storica. Lo è nel preciso senso che la ‘proprietà’ come viene intesa nel nostro presente è un’invenzione dell’Inghilterra a partire dal XVI secolo. L’esempio più chiaro sono le cosiddette enclosures, vale a dire la recinzione delle terre che per secoli (o per millenni) erano appartenute alle comunità di villaggio. Terre acquistate ma più spesso confiscate e depredate da parte di mercanti con l’ausilio del braccio armato della monarchia. E questo allo scopo di rendere le terre che una volta erano comunitarie più redditizie, recintandole e gestendole in maniera privata; ad esempio eliminando le coltivazioni per sostituirle con dei pascoli che producessero lana da vendere sul mercato mondiale.

Ho scritto ‘terre appartenute alle comunità’. Questa è stata in Europa, e non solo, la forma per millenni più diffusa, direi ‘naturale’, di proprietà. Nella Roma repubblicana e persino in quella imperiale neppure il capo politico più autocratico poteva rendere la res communis una proprietà privata. E non poteva neppure vendere o acquistare le terre e i beni sacri, che erano moltissimi e appartenevano agli dèi. Tra la cosa pubblica e la cosa privata si dà quindi la cosa comunitaria, i beni essenziali a una comunità strutturata, che nessuno può fare propri a esclusione degli altri ma che non possono neppure essere aperti a chiunque non appartenga a quella determinata comunità. Possono infatti esistere dei beni comuni soltanto là dove esistono delle comunità che si riconoscono come tali, in un perimetro fisico e concettuale ben preciso ma che può naturalmente essere più o meno ampio.

È facile capire che si tratta di un paradigma del tutto diverso rispetto all’apertura indiscriminata dei territori a chiunque; un modello diverso rispetto all’universalismo che accomuna la globalizzazione capitalista e lo statalismo di tipo sovietico. Si tratta del paradigma dei beni comuni gestiti da un villaggio, una comune, una corporazione. Da parte di molti studiosi tale paradigma è oggetto di rivalutazione rispetto ai disastri del globalismo universalista, sempre più evidenti in ogni settore: economico, sociale, culturale, antropologico.

Un classico su questo tema è il libro dello storico statunitense Rafe Blaufarb, The Great Demarcation: The French Revolution and the Invention of Modern Property (Oxford University Press, 2016) che mostra come proprietà privata e proprietà statale siano state consacrate entrambe dalla Rivoluzione francese. Uno degli obiettivi sia dei girondini sia dei giacobini fu infatti l’estirpazione dei beni comuni, della proprietà delle terre che non appartenevano a nessun soggetto privato ma neppure alla pubblica amministrazione, essendo gestite, lavorate e utilizzate da comunità circoscritte. L’abbattimento della realtà comunitaria in Europa e in Occidente (altrove essa sopravvive) ha rappresentato un grave danno, foriero di ineguaglianze, ingiustizie e oppressioni, sia pubbliche sia private.

Nelle realtà sociali non si danno soltanto gli individui e lo Stato, non esistono soltanto l’impersonalità del Mercato e l’impersonalità dello Stato. Nel mezzo e al di fuori di tale dicotomia c’è la storia millenaria delle comunità umane nei luoghi, negli spazi e nei tempi più diversi.

Il carattere astratto sia della cosa pubblica - sentita lontana e opprimente - sia della cosa privata - sentita iniqua e portatrice di sfruttamento - si contrappone al carattere concreto di comunità definite che, ripeto, sono state la regola e la prassi per millenni. È possibile un ritorno a tali pratiche? Nulla torna mai come prima né nelle vite individuali né in quelle collettive ma è necessario almeno sapere che non è vero che non ci siano alternative all’iniquità dello Stato o a quella del mercato.

Naturalmente un bene comune necessita di confini, di frontiere, pena la sua dissoluzione appena qualcuno più forte si voglia prendere tutto (le enclosures inglesi, appunto) o elementi estranei alla comunità ne stravolgano l’identità, ponendo in questo modo fine al suo equilibrio. Inoltre, il concetto e la pratica dei beni comuni possono e debbono essere ampliate rispetto ai secoli scorsi, poiché anche le civiltà hanno dei beni comuni, i quali non appartengono né agli Stati né ai mercati ma nemmeno all’‘umanità’ universalmente e astrattamente intesa.

Le comunità dovrebbero in ogni caso essere riconosciute come entità giuridiche, come lo sono oggi gli individui e gli Stati. In caso contrario a estendersi non sono i diritti ma il loro esatto contrario: la schiavitù. La quale non è affatto scomparsa ed è oggi in grande ripresa nelle forme di lavori sfruttati, stressanti, del tutto sottopagati, quali, per fare un solo esempio, quelli di coloro che consegnano a domicilio beni di tutti i generi: dalla pizza ai prodotti acquistati in rete. Lo schiavo è infatti un soggetto il quale non ha nessuna particolare competenza e che ha il solo compito di fornire energia, che si tratti dell’energia necessaria alle galere in mare del passato o dell’energia che oggi trasporta in modo frenetico dei beni di consumo da chi sfrutta verso chi paga. In ogni caso, lo schiavo è una macchina energetica senza alcun diritto né dignità. Dopo averli spremuti per bene, aziende come Deliveroo, Uber o Amazon abbandonano gli schiavi all’assistenza pubblica, vale a dire a quella di tutti noi. «Inteso in questi termini, lo schiavismo moderno non è un interdetto respinto ai margini estremi delle nostre società, bensì il cuore pulsante dell’iperglobalizzazione» (Guillaume Travers, éléments, n. 198, octobre-novembre 2022, p. 54).

È questa la ragione per la quale le aziende capitalistiche (piccole, medie e grandi) sono del tutto favorevoli all’arrivo nel nostro continente di masse di immigrati dall’Africa e dall’Asia: nulla di ‘umanitario’ in tutto questo e molto invece di schiavile. Credo quindi che senza il ritorno di un rinnovato paradigma comunitario l’iniquità sia destinata a estendersi e l’Europa sia destinata a finire.