BABILONIA
La natura profondamente teologica dell’opera narrativa e drammaturgica di Friedrich Dürrenmatt si esprime nei temi, nel lessico, nel significato complessivo dei suoi singoli romanzi, racconti, commedie e drammi. A volte però lo fa in modo palese e diretto, come nel caso di Un angelo è sceso a Babilonia (in «Teatro», a cura di Eugenio Bernardi, trad. di Aloisio Rendi, Einaudi-Gallimard, Torino 2002, pp. 335–419).
Nella Babilonia del re Nabucodonosor, un’immensa città fatta di burocrati, mercanti, militari, teologi e mendicanti, appare un angelo del Signore a portare con sé una splendente fanciulla appena creata dal nulla. Kurrubi, questo il suo nome, è destinata al più miserabile degli umani che l’angelo riuscirà a trovare. Il problema è che Nabucodonosor si è messo in testa di eliminare dal suo regno tutti i mendicanti, trasformandoli in impiegati dello Stato. Ne è rimasto uno solo, Akki, che si ostina a rifiutare l’offerta del sovrano. Il quale prova a fare un ultimo tentativo travestendosi anche lui da mendicante per convincere Akki a cambiare mestiere. L’angelo e Kurrubi incontrano dunque due mendicanti e non uno solo, come invece si aspettavano. Hanno quindi inizio una serie di equivoci, malintesi, ambiguità, incomprensioni ed epifanie, nella cui costruzione Dürrenmatt è davvero maestro in ogni suo testo.
Lo scrittore motiva questa commedia con il desiderio di capire perché a Babilonia venne eretta una Torre che sfidasse il Signore. Trova la motivazione nella volontà di potenza che caratterizza non l’antropologia babilonese ma quella contemporanea, nella volontà «di creare un regno privo d’imperfezioni» (p. 342). L’esito sarà la hybris, appunto, della Torre. Alla quale si contrappone la saggezza di Akki, il quale sa «che nel declinare dei secoli tutto finisce in mano ai mendicanti» (p. 357) e soltanto ciò che viene direttamente creato da Dio, è «indistruttibile come il nulla» (p. 339). Un Dio però dinanzi al quale bisogna inorridire ancor più che davanti agli umani. Egli «ci ha creato a sua immagine e somiglianza. Tutto è opera sua» (p. 362). A questa teologia tragica si oppongono le parole e i comportamenti dell’angelo, piuttosto sciocchi e sconclusionati. Questo angelo somiglia infatti molto al Dottor Pangloss del Candide, dato che di fronte alle sciagure e ai rischi di cui è vittima la ragazza che gli era stata affidata sa solo rispondere che tutto è perfetto, che il mondo va bene e che Dio sa quel che fa. Si può certo cercare un volto d’amore «in quegli oceani di luce» (p. 367) ma la realtà, la quotidiana realtà dei viventi, è che a dominare sono «l’ingiustizia, la malattia, la disperazione. Gli uomini sono infelici» (p. 366).
Infelicità che il potere, soprattutto un potere etico come quello che Nabucodonosor si è messo in testa di voler esercitare, non fa che moltiplicare. Per costruire una società perfetta, dove ad esempio nessuno si senta offeso, è necessario che nessuno parli. E che a comandare siano degli integerrimi funzionari ai quali, «in quanto funzionari, tocca solo obbedire, non riflettere» (p. 369). Funzionario di questo genere fu Adolf Eichmann. Funzionari di questo genere sono stati coloro – dirigenti scolastici, dirigenti sanitari, rettori di atenei e altre miserabili figure – che hanno licenziato, sospeso, perseguitato dei cittadini in nome di un principio che si legge anch’esso (sorprendente, vero?) in questa commedia del 1953: «Questo è scienza, lo ha dimostrato un professore di Sodoma» (p. 376). Nel 1953, nel 1543 (uscita del De revolutionibus orbium caelestium di Copernico), nel 1600 (rogo di Giordano Bruno), nel 1975 (pubblicazione di Contro il metodo di Paul Feyerabend), nel 2022 (caccia alle streghe contro chi ha rifiutato di inocularsi una sostanza dagli effetti sconosciuti), e in qualunque altra data nella quale sia accaduto qualcosa di epistemologicamente significativo, chi conosce la scienza sa che una frase come «questo è scienza» rappresenta della scienza la negazione. E costituisce invece la conferma della iniquità del potere. Se «per resistere al mondo, il debole deve conoscere il mondo» (p. 391), di tale conoscenza fanno parte anche la storia e la filosofia della scienza, la cui assoluta e completa ignoranza ha condotto a una vicenda come quella del Covid19.
Le parole che Kurrubi rivolge a Nabucodonosor si possono ben applicare ai politici, ai funzionari, ai professori, ai medici, ai giornalisti, agli albergatori e ai bidelli che sono stati (e sono ancora pronti a essere) agenti dell’iniquità e dell’ignoranza: «Tu non vivi e non sei morto, tu esisti e sei inesistente» (p. 412). Morti viventi, zombi, ai quali augurare una pronta caduta dalla Torre della loro stupidità, della loro sottomissione. La totale obbedienza dei cittadini e degli uomini contemporanei alle menzogne che loro propina il potere attraverso il sistema mediatico – televisione, stampa, facebook e altre reti digitali – sta facendo dell’Occidente sia europeo sia anglosassone una «Babilonia cieca e grigia», la quale «sta andando a pezzi con la sua torre di pietra e di acciaio che si spinge inarrestabile sempre più in alto, finché crollerà» (p. 419). Che li seppellisca.