FINCHÉ LA MACCHINA VA...
“La macchina si ferma” è un racconto che Edward Morgan Forster ha scritto nel 1909 (pubblicato da Mondadori nel 2020 con il titolo La macchina si ferma e altri racconti). La data di prima pubblicazione è importante perché dà la misura della lungimiranza dell’autore. La distopia di un futuro che Forster vorrebbe scongiurare fa invece i conti con l’attualità che, come spesso accade, con il proprio manifestarsi supera la più fervida e preveggente immaginazione: “L’uomo, il fiore di ogni carne, la più nobile fra tutte le creature visibili; l’uomo, che un tempo aveva fatto dio a sua immagine, e aveva rispecchiato la propria potenza nelle costellazioni; l’uomo, nudo e bello, stava morendo, strangolato dall’abito che aveva tessuto per sé con le sue mani. Secolo dopo secolo si era dato da fare, ed ecco, questa era la ricompensa”. Inizio da dove finisce il racconto di Forster per mettere subito in evidenza che dopo l’ennesimo secolo (poco più di tanto è infatti passato dal 1909), quell’uomo che ha ucciso dio fatto a sua immagine e somiglianza (o forse era il contrario?) non sta morendo ma sta tentando, con grandi possibilità di successo, il suicidio. Non si tratta infatti di una ricompensa divina o aliena, ma di una conseguenza: ciò che accade all’uomo dipende dalle sue azioni. Egli non lo può neppure attribuire a quel dio che presto ha deciso di uccidere e sostituire. Di conseguenza ora non ha più con chi prendersela né tanto meno a chi rivolgersi.
Ma cosa avrà mai fatto l’umanità per meritarsi questa ricompensa o per, come si è prima precisato, subire questa conseguenza? Ha creato una Macchina formidabile che avrebbe dovuto risolvergli la vita: “Abbiamo creato la Macchina affinché facesse la nostra volontà, ma ora non riusciamo più a controllarla. Ci ha derubato della percezione dello spazio e del contatto fisico, ha infangato ogni rapporto umano e ha ridotto l’amore a un moto carnale, ha paralizzato i nostri corpi e le nostre anime, e ora ci costringe a venerarla”.
Una macchina progettata dagli uomini per gli uomini che, dopo un lungo tempo, hanno cominciato, immemori di esserne stati i creatori, a venerare come se fosse qualcosa di esterno a loro o persino di divino. La Macchina funzionava talmente bene che si è emancipata dal suo creatore e ha cominciato a funzionare sempre di più e meglio e a tutti i livelli della piramide maslowiana dei bisogni umani. Tanto che il “Libro della Macchina” – nient’altro che il manuale delle istruzioni – ha sostituito non solo tutti libri sacri di tutte le religioni ma “l’intera letteratura dell’antichità, con i suoi inni alla Natura, i suoi scongiuri nei confronti della Natura…”. La Macchina ha sostituito anche la Natura e confinato gli esseri umani tutti al di sotto della crosta terrestre in piccole camere esagonali, senza finestre ne altre aperture, ambienti supertecnologici dove hanno tutto ciò che gli serve. L’intera vita degli umani trascorre dentro quelle celle piene di ogni confort e tecnologia venerando la Macchina. Per nessun motivo è necessario uscire dalle proprie camere dato che il “progresso” aveva finalmente superato anche quel “modo scorretto delle funzioni del sistema, adoperandolo per portare la gente alle cose e non le cose alla gente. Quel buffo mondo antico in cui le persone si mettevano in cammino allo scopo di cambiar aria anziché cambiare l’aria nelle loro camere abitative”.
Ogni aspetto della vita umana a cominciare dall’atto riproduttivo è gestito e controllato dalla Macchina che funziona per evitare all’uomo, mettendolo così al riparo dall’ambiente della superficie terrestre ormai inospitale, di spostarsi, di incontrare i propri simili: “la gente evitava ogni contatto fisico. Era una consuetudine che i progressi della Macchina avevano reso ormai obsoleta”. Anche l’esperienza diretta della realtà era stata superata poiché bisognava tenersi “lontani dalle idee di prima mano” dato che “non esistono idee di prima mano. Non sono altro che sensazioni fisiche prodotte da amore e timore, e su basi tanto rozze chi mai potrebbe edificare un sistema filosofico?”
L’abolizione dell’amore e del timore era a garanzia della sicurezza e della conoscenza dei nuovi esseri umani sepolti vivi a vivere una vita di riflessi, indiretta, mediata dalla Macchina. Gli unici scambi di conoscenze avvenivano – dato che anche “la goffa consuetudine dei congressi e dei seminari era stata ormai abbandonata da tempo” – standosene seduti nelle proprie poltrone, sempre all’interno delle celle esagonali impilate l’una sull’altra sottoterra, argomentando temi concordati mentre gli ascoltatori a cui ci si rivolgeva, anch’essi in poltrona, udivano e vedevano “assai distintamente” le parole e le immagini di chi stava parlando. Così anche “la scienza si ritirò nel sottosuolo del pianeta, per concentrarsi ormai soltanto [paradossalmente] su problemi che era sicura di poter risolvere”.
L’esperienza diretta dello spazio era stata dichiarata illegale tanto da venire punita con la “Cacciata” dal sistema della Macchina. La vita trascorsa, per intero o fino a quando non veniva accordata l’eutanasia a chi la richiedeva, nelle celle interrate aveva fatto perdere agli uomini la percezione dello spazio. L’apparato muscolare atrofizzato dei corpi isolati e interrati non era più capace di misurare lo spazio. L’uomo che avrebbe dovuto essere la misura di tutto e soprattutto dello spazio aveva perso la capacità di percepirne la dimensione. Mentre il tempo, paradossalmente, era diventato importantissimo. L’umanità, privata dello spazio, si concentrava solo sul tempo che però non misurava più seguendo il movimento del sole e degli astri o il trascorrere delle stagioni da cui si era emancipata, ma utilizzando gli “apparati” stessi della Macchina, tra tutti l’“apparato del sonno” e della comunicazione.
“Ma infine venne il giorno in cui, senza il benché minimo preavviso, senza alcun indizio che facesse presagire l’esaurimento, l’intero sistema delle comunicazioni collassò in tutto il mondo, e il mondo così come loro lo conoscevano ebbe termine”.
Così “La Macchina si ferma” e con essa quegli umani che “dovettero piuttosto assoggettarsi a una qualche irresistibile esigenza che nessuno sapeva donde avesse avuto origine e che, quando fu soddisfatta, venne rimpiazzata da un’esigenza nuova ma altrettanto irresistibile”. Il pensiero di Emanuele Severino sull’attuale progresso tecnologico non solo viene preconizzato nel racconto di Forster ma è anche anticipato con un fraseggiare assai simile a quello del filosofo. Quella Macchina incontestabile, pena la cacciata dal sistema, infatti “veniva servita in maniera sempre più efficiente e sempre meno intelligente” fino al momento in cui “l’umanità, nella sua ricerca di agio a tutti i costi, aveva superato se stessa. Aveva sfruttato troppo le ricchezze della natura” e ora “tranquilla e beata stava sprofondandosi nella decadenza, e la parola progresso significava ormai soltanto progresso della Macchina”.
E cosa accadrebbe se una sì fatta Macchina non si dovesse mai fermare? Quali sarebbero le conseguenze dell’eternità della Macchina che nel racconto di Forster ha sostituito ogni divinità e che si è alimentata delle vite degli umani che l’hanno creata?
Una risposta certa a queste domande conclusive di una recensione forse troppo allarmata non è, ahimè, nota. Ciononostante la realtà in cui sono immerso, mentre scrivo, offre ulteriori simmetrie rispetto alla finzione del racconto. A chi ora vorrà leggere per intero “La macchina si ferma” l’amaro divertimento di coglierle.