Aldous

Distopie

UNA SCUOLA SCREDITATA

Chi voglia andare a vedere se leggi e decreti in esame al Parlamento o ventilati dai vari governi siano sensati o meno si troverà di fronte ad una irta selva di rimandi e riferimenti che lo indurrà, in molti casi, a rinunciare e accontentarsi delle sole riduzioni giornalistiche con ciò che ne consegue per l’uscita dallo stato di minorità individuale. Una voluta complicazione (la complessità è ben altro) protegge le élite dalle masse. Ogni gergo, da quello giuridico a quello medico, si trova al punto di incontro tra una legittima necessità di precisione e il desiderio di escludere il profano.

Il mondo della scuola, cosa gravissima per chi ne pensi la ratio intrinseca, non è diverso. È avvolto da un gergo oscuro, un pedagogichese che necessita, per adottarlo, di cattivo gusto e mancanza di buone letture. Il linguaggio della scuola si muove tra termini pseudo-tecnici stiracchiati fino a non significare più nulla (o a farsi persino il proprio contrario: inclusione e competenze sono un ottimo duo esemplificativo) e tra decine e decine di acronimi che potrebbero ben sostituire quelli partitici cantati decenni fa da Rino Gaetano in Nuntereggae più: “pci psi/ dc dc / psi psi pli pri/ dc dc dc dc / Cazzaniga”

In verità non è solo il linguaggio a essere oscuro ma anche le cose: le procedure, le graduatorie di fascia e di istituto, interne ed esterne, le forme di reclutamento, i trasferimenti, le utilizzazioni e le assegnazioni, i corsi abilitanti con riserva e non. Un ginepraio che favorisce, come l’Amazzonia fa con le guide indigene e gli esploratori, l’esistenza di sindacalisti, esperti, guide e siti specializzati consultati soprattutto da precari a cui si cambiano le regole del gioco a partita iniziata (partite spesso decennali).

Tutto questo ha delle conseguenze collettive in termini, si potrebbe dire, di ecologia della democrazia. Diventa difficile per il cittadino riuscire a capirci qualcosa giacché la nostra funambolica e circense classe politica esprime in particolar modo nella scuola la propria stracciona creatività mutando procedure e sistemi quasi ogni anno. Diventa difficile inquadrare i passaggi, i significati e ovviamente ancor meno i colpevoli. Questa macchinosità e mobilità di procedure nel suo complesso costituisce il sistema di creazione e conservazione di un insieme amorfo e maleodorante e fa sì che, esclusi i tecnici che scrivono su organi di informazione letti pressoché esclusivamente dal personale della scuola, i commentatori delle testate maggiori si occupino poco della questione e quelle poche volte lo facciano male, tenendosi sulle generali o esibendosi, in mancanza di meglio, in moralismi e richiami agli antichi valori. Il risultato è un sostanziale assegno in bianco firmato dai cittadini alla classe politica che sta egregiamente usando il mandato per rimbecillire le nuove generazioni. Se si tiene presente che l’altra grande agenzia “educativa” contemporanea oltre la scuola sono ormai i social ognuno potrà cogliere la gravità della situazione.

Scomparsa così la “cosa” di cui parlare, troppo macchinosa e sfuggente, resta solo lo schieramento e la professione di fede che vede buoni tra i propri sodali e cattivi nei governi di colore avverso. Niente insomma che permetta di capire. È necessario invece cogliere, nelle continue disposizioni che si succedono ininterrotte da un ministro all’altro, nelle macchine retoriche che funestano la scuola, nei diversivi e negli annunci, le linee di tendenza e gli interessi in campo; sarebbe inoltre da far rilevare alla pubblica opinione (o ai suoi balcanizzati resti) l’inquietante continuità progettuale che dagli anni novanta a oggi caratterizza l’azione del ministero dell’istruzione

Il punto in cui porsi per scorgere la cifra politica è, in questo momento, il reclutamento dei docenti, dove sono in corso alcuni mutamenti di cui l’italiano medio dovrebbe prendere coscienza. Da qualche anno ai concorsi (la via regia costituzionalmente indicata), banditi non troppo convintamente e con pochi posti in palio, il sistema politico sta affiancando una raccolta punti di tipo particolare. Si indicano alcune discipline che i malcapitati aspiranti insegnanti dovrebbero conoscere (o, meglio, avere un certificato che attesta che le conoscono), si dà loro un corrispettivo quantitativo da raggiungere (i famosi crediti) e lo si rende obbligatorio pena fuoriuscire dal sistema delle supplenze. Si crea un prerequisito nuovo e i precari non hanno altra scelta che aggiungere questa roba alla loro già assurda collezione di certificati e “attestatini” pagando altro denaro. Così, per non essere estromessi dal sistema, dei lavoratori malpagati (il precario insegnante fa spesso solo alcuni mesi l’anno e in sedi lontane da casa spendendo a volte più di quello che guadagna) gli aspiranti docenti devono scegliere tra sborsare l’obolo richiesto o uscire fuori dal grande gioco.

Nel 2017 la ministra Fedeli, non ritenendo sufficienti i titoli degli aspiranti insegnanti (forse li paragonava ai propri?) inserì nel percorso verso l’insegnamento il conseguimento di 24 crediti che il precario avrebbe dovuto ottenere attraverso degli esami e che avrebbero dovuto coprire le lacune che in termini di preparazione antropologica e psicologica i ministeriali avevano improvvisamente ravvisato. Gli atenei on-line con estrema velocità (quasi non fossero sorpresi dal provvedimento vien da pensare) prepararono un pacchetto di discipline a prezzo forfettario intorno ai 500 euro, perlopiù risolti velocemente con test a crocette o tesine non lette da nessuno. Tutte le persone che hanno acquisito i crediti che l’estensore di questo articolo conosce che lo hanno fatto in una università online. Nessuna persona tra queste è mai stata bocciata. Non tutti hanno fatto da sé le tesine né in solitudine i test. Ci si potrebbe chiedere se non sarebbe stato più onesto chiedere ai supplenti di fare una donazione di 500 euro a un ateneo a propria scelta, magari deducibile dalle tasse se l’ateneo è online.

Quest’anno il ministro Valditara, la dimostrazione vivente che, si può star tranquilli, non vi è alcun disegno di controegemonia nel governo Meloni ma soltanto il desiderio di continuare, nell’istruzione come in politica estera, le nostre peggiori decennali tradizioni politiche, propone i 60 crediti. Corsi fatti in fretta e furia con posti che non bastano per tutti e una accozzaglia di materie che dovrebbe, per magia, separare le pecore dai capri e trasformare in abilitati gente che spesso già lavora nelle scuole pubbliche da molti anni e spesso con ruoli di responsabilità. Il loro ottenimento, vede nuovamente in gran spolvero gli atenei on-line.

I 60 crediti rivelano così una natura sacramentale. L’unzione battesimale dei crediti fa di un mero supplente un docente certificato. Ma giacché siamo un paese cattolico la natura sacramentale impiega pochissimo tempo ad accompagnarsi ad una natura simoniaca e l’unzione abilitante la si ottiene non per fede ma sborsando circa 2.000 euro. Ovviamente l’abilitazione, a voler dare un’occhiata alle curve demografiche in età scolare, non coinciderà con l’immissione in ruolo per tutti. Del resto i nuovi giochi dell’oca con cui si tengono buoni i cittadini ipermoderni hanno la particolarità di aggiungere caselle a gioco iniziato.

Cosa trarre da tutto questo? Ovviamente il denaro spiega molto ma non tutto. Rispetto ad un semplice prelievo di denaro ai precari e ad un risparmio sul meccanismo concorsuale resta il vantaggio della continua evangelizzazione dei malcapitati con corsi e corsetti sui dettami del pedagogichese, sulla litania delle competenze e dell’inclusione, sulla messa in un angolo dei contenuti e delle discipline. Si lavora alla creazione del docente come essere affaccendato e umiliato, sempre più lontano da uno studioso o un intellettuale o un educatore (o, meglio, dall’insieme di queste tre cose) e sempre più vicino ad un assistente sociale senza potere, a uno psicologo senza strumenti, ad un amministrativo senza mansionario, ad un progettista di formazione senza autonomia.

In secondo luogo resta un nuovo passaggio in cui chi non ha denaro o genitori alle spalle resta al palo (non perché meno preparato o meno volenteroso o meno bravo ma solo perché più povero) e altri vanno avanti. Un dispositivo classista come classista è la nostra classe politica di destra e di sinistra. Un pizzo di Stato ai deboli che ben si attaglia ai nuovi sistemi di governo che senza soluzione di continuità dal 2020 il potere ha inaugurato.     

In terzo e ultimo luogo un piccolo avviso ai naviganti: gli atenei on-line sono una potenza (anti)culturale con cui fare i conti. Uno di essi fa già politica con il proprio proprietario (Bandecchi), un altro gruppo di atenei ha scelto qualche mese fa come presidente Luciano Violante spiegando a chi vuol capire che non è la didattica né la ricerca internazionale bensì la pressione sulla sfera politica (sempre a fini principalmente di profitto ovviamente) il loro focus, un terzo ateneo ha già fatto da incubatrice ad alcuni elementi di area cinque stelle dei governi Conte. Ovviamente la facilità incresciosa dei loro corsi di studio porterà (sta già portando) le università in presenza meno prestigiose a dover abbassare i propri standard per non trovarsi senza studenti e così via. 

Un orizzonte ingiusto e che causa angoscia in chi dà importanza all’eguaglianza e alla cultura. Una angoscia che consiglio di combattere attenendosi alla sola lettura di Repubblica e Corriere e alla sola visione dei telegiornali. Lì nulla accade e il sole, cambiamento climatico permettendo, splende sempre sui giusti e sugli ingiusti.