DANZA MACABRA
Mentre veniamo sospinti verso un destino tecnologico, stupefacente o minaccioso a seconda degli occhiali con cui guardiamo il mondo, viene da chiedersi cosa fa supporre che l'intelligenza artificiale (AI) riuscirà presto o tardi a superare quella umana, al punto da renderla superflua e ad alto rischio di estinzione. Escludendo il conflitto in atto per il sempre possibile precipitare degli eventi, anche la tecnologia digitale, dopo la pandemia passata e quelle già preannunciate, il collasso del pianeta e altri tristi comprimari, si è accodata alle figure della danza macabra che ogni giorno mette in scena per la pubblica opinione il suo memento.
Più che la presunta catastrofe annunciata dai guru dell'informatica digitale e dai loro finanziatori, a ben guardare, sarà probabilmente l'affarismo del capitale a provocare la rovina, per pura miopia umana anche senza l'aiuto del Golem di ultima generazione. La convinzione della futura supremazia dell'AI dipende in gran parte dall'ostilità per il vivente e dall'orientamento impresso alla ricerca scientifica e tecnologica dall'economia dello sfruttamento. Perciò non è dato sapere con certezza se siamo di nuovo in balìa di una precoce intimidazione o in una prospettiva realmente distopica oppure, come pare, in una strategia di riposizionamento nella competizione per un primato tecnico e dunque anche politico e simbolico.
L'idea predominante di intelligenza umana è fortemente schiacciata sulla concezione strumentale di razionalità: calcolante, performante e rapida. Insieme a questa bizzarra riduzione prestazionale, consona alle esigenze dell'organizzazione produttiva, si fanno spazio anche alcune pulsioni come il desiderio compensativo di proiettare nel futuro, fortemente compromesso e ansiogeno, il miraggio di un'intelligenza capace di poteri straordinari, tali da illudere di superare ogni limite, perfino quello della morte. Alla paura della morte, evidente nelle rapaci pratiche di accaparramento e di sopraffazione, si affianca però anche l'ossessione della creatura che si rivolta contro il suo creatore. Nel pericolo annunciato tornano i destini rovinosi delle figure ribelli o disobbedienti di Lucifero e di Caino e le creature mostruose dei Frankenstein e dei Mr. Hyde; e riecheggiano anche le innumerevoli versioni delle storie narranti il patto scellerato con il diavolo. Archetipi ancora attivi come il magma di paure di cui si alimentano e che portano però, chi ha il potere di farlo, a cercare le risposte nella direzione ancora meno rassicurante.
Sul fronte del senso comune, nel manierismo della modernità, è poi inopportuno apparire antiquati di fronte al nuovo che avanza. Ammirazione narcisistica, complesso di inadeguatezza fanno da humus alla cattiva erba della remissività con la quale si attende, tra stupori e timori, il messianico salto tecnologico. Del resto lo slittamento nominalistico che chiama intelligenza ciò che invero è una potente facoltà di calcolo alimenta il favore verso il post-trans-umano ma fa dimenticare che proprio dell'intelligenza e del cervello non sappiamo ancora tutto. Ha poco senso perciò l'esaltazione del presunto sosia se l'identità dell'originale non è poi così afferrabile. Ma ipotizzare che esiste un quid inafferrabile, anche per le spire del più evoluto sistema robotico, non rappresenta solo un ingenuo tentativo di coltivare la speranza o lo scetticismo.
Per fortuna siamo esseri imperfetti e conviene allearsi con questa consapevolezza per difendere, dalla furia sociopatica dell'algoritmo, il primo baluardo di resistenza concettuale: il valore della corporeità, del vivente o in qualunque altro modo si voglia chiamare la fisicità che siamo e in cui ci troviamo immersi. Questa barriera protettiva non va confusa con il costrutto di nuda vita, di pura sopravvivenza biologica che ha veicolato la riorganizzazione sociale imposta in pandemia. E siamo anche a distanza siderale dall'opinione che proprio in quanto imperfetti non rimane che immaginarsi, presto o tardi, il perfezionarsi di un'intelligenza superiore.
Tale aspettativa lascia sottintendere, infatti, che la conoscenza procede per accumulazione di dati, che coincide con la realtà osservabile, che non è soggetta ad interazioni ed interpretazioni che la rendono problematica e fallibile. Se così non fosse, non vi sarebbero né opinioni diverse, né visioni discordanti in ogni campo e disciplina dello scibile umano, né sarebbero possibili nuove scoperte, nate talvolta dal caso e dall'errore, e più spesso dal dubbio che le cose non stiano proprio come ce le rappresentiamo.
Il fatto poi che, in questo nostro tempo, il processo che dovrebbe portare a compimento un simile miracolo della tecnica segua un movimento dal basso verso l'alto, dall'uomo alla macchina che da lui apprende e autoapprende secondo schemi comunque umani, mostra l'ignoranza blasfema di una fede, non più inscritta come un tempo nell'anelito e nella profondità del pensiero teologico ma ridotta a caricatura dal volgare scientismo. Media di questo inganno cognitivo sono di nuovo l'informazione mainstream, prona agli interessi di parte, e soprattutto la cattiva divulgazione che ancora una volta, anziché contribuire ad accrescere la conoscenza, nasconde sotto l'esaltazione di una certa ideologia del progresso scientifico il prezzo, a danno dei più, dell'asservimento dell'uomo su l'uomo.
Cambiando per un momento prospettiva, l'idea di modellare la realtà e l'attività umana sull'esecutività e la prevedibilità della macchina equivale, per l'appunto, all'eliminazione del "fattore umano" e tutti gli annessi inconvenienti: istanze, aspettative, riconoscimenti e legami. Scrive André Gorz in Metamorfosi del lavoro: "L'integrazione funzionale degli individui è destinata a escludere la loro integrazione sociale; la predeterminazione funzionale dei loro rapporti impedirà loro di intessere rapporti reciproci fondati sulla cooperazione in vista di fini comuni secondo criteri comuni ... L'eliminazione del "fattore umano", la sostituzione del lavoro vivo e dell'operaio libero con un lavoro e un lavoratore rigorosamente programmati è richiesta tanto dalla razionalizzazione economica quanto dal funzionamento della megamacchina: l'una e l'altra esigono la sottomissione del vivo all'inerte, del lavoro vivo al lavoro morto (cioè alle macchine, al capitale)" (pp. 53-54 passim).
È sufficiente mettere piede in una qualunque organizzazione moderna per constatare la similitudine tra le linee di montaggio della fabbrica tradizionale e le catene produttive dell'apprendimento e della creatività. Non per caso si pronostica che i lavoratori del terziario saranno, se già non lo sono, fra i più penalizzati dall'impiego dell'intelligenza artificiale.
Ma la scienza e l'epistemologia raccontano da tempo anche altro, ad esempio, che il cervello non funziona come un computer, che l'intelligenza umana non è solo logico-computazionale e che non percorre circuiti stabiliti. Ma soprattutto raccontano che non è scollegata dal corpo e dall'ambiente, alla stregua di una macchina che funziona nello stesso modo autoreferenziale in qualunque contesto si trova. Pensare che l'imperfezione che deriva dall'essere continuamente situati, ritenere che la lentezza necessaria alla riflessione e alla coscienza critica costituiscano uno svantaggio da superare equivale a ritenere che possiamo vivere bene senza fare esperienza, senza elaborare significati, reagendo solo ad impulsi elettronici, privati della possibilità di agire e senza libertà di scelta, inerti co-protagonisti di una danza macabra.