Aldous

Distopie

PER UN LUDDISMO BEN TEMPERATO

Riflettere su tutte quelle parole diffusesi durante il quadriennio pandemico-bellico è fondamentale, proprio quelle che fingono di essere descrittive ma sono schiettamente valutative: negazionista climatico, no vax, filorusso, omofobo, patriarcale, populista, eccetera. Sono parole molto importanti per formare gli abitanti del nostro mondo nuovo in costruzione. Il loro uso è una sorta di cicalino d’avvertimento: ti dice che ti sei spinto oltre le colonne d’Ercole di ciò che deve essere detto o persino pensato. Il rapporto sociale mediato dai giudizi morali si potrebbe dire, parafrasando Debord.

Nella mente di chi ascolta mentre qualcuno viene così appellato appaiono e si solidificano divieti di accesso e direzioni obbligate. Si capisce che “là” non si deve mai andare. In tal senso, nei talk show i rituali accerchiamenti e le aggressioni verbali in molti contro uno di chi veramente dice l’indicibile (che non è mai la destra per la sinistra e la sinistra per la destra che simul stabunt con ciò che ne consegue) servono proprio a questo indispensabile imperativo amorale: “resta nel recinto di ciò che è opportuno dire”. In caso contrario, qualunque sia la tua statura scientifica o professionale, verrai considerato persona non grata da ogni agenzia culturale. Così si formano individui addestrati a non “esagerare”.     

Ciò che mi sembra estremamente preoccupante è però l’assenza di “luddista” tra le “parole che squadrino da ogni lato”, le parole che ci dicono ciò che mai dobbiamo essere. Capita di rado di essere apostrofati così, non lo si usa e si conosce poco questo termine e ciò merita una riflessione. Il fatto che “luddista” o un suo adeguato sostituto non si siano sviluppati è un pessimo segnale. Significa che una posizione di demitizzazione della tecnologia (la nostra vera religione con tutta evidenza) non è neppure considerata tra le tesi culturali degne di nota da parte del sistema informativo; significa che nessuno dei grandi e piccoli sacerdoti del mantenimento del mondo così come è, ritiene anche lontanamente che una lettura critica del nostro rapporto con la tecnologia possa costituire un’opzione praticabile, neppure intellettualmente.

È un dio che può essere bestemmiato la tecnica, tanto ritiene di essere inattaccabile e necessario. Rifiutarsi di possedere uno smartphone o addirittura un cellulare; rifiutare di cenare dove il menù non sia almeno anche cartaceo, non comprare su Amazon, rifiutarsi di venire “inseriti” nelle “storie” dei social altrui, ritenere inutile o persino nocivo la presenza della tecnologia nell’apprendimento eccetera sono atteggiamenti che non vengono neppure considerati come segnali di una visione del mondo errata, regressiva, nemica delle umane genti e della loro emancipazione al silicio. Si guarda piuttosto al tizio che interpreta queste tesi con parole o opere come a un personaggio strampalato e idiosincratico, quasi come uno di quei tipi eccentrici di cui era ricca la letteratura inglese di consumo del Novecento.

Colui che critica il ruolo della tecnologia nella nostra vita può essere considerato un nevrotico oppure un soggetto incapace, per limiti intellettivi, di interagire con gli strumenti tecnologici ma mai un interlocutore. Qualora l’aspirante luddista non si limiti ad esporre la propria condotta di vita rispetto al dio ma argomenti, magari facendo leva sull’enorme massa di dati quantitativi ed evidenze qualitative che mostrino la diffusione, nelle nostre “vite da web” di inquietanti fenomeni sociali, psicologici, comportamentali, politici, igienici e persino cognitivi (i quozienti intellettivi, per quel che vale questa roba, continuano ad abbassarsi) allora “l’integrato dello spettacolo integrato” non saprà cosa rispondere e si limiterà a dire che le cose vanno così e non si può tornare indietro. Per l’integrato la prova della bontà della tecnologia è l’enorme presenza della tecnologia ed è l’inimmaginabilità di un mondo non tecnologico. D’altra parte (si ponga mente ad Anselmo) le religioni trionfanti tendono a giustificarsi attraverso prove a priori. Dietro la prova a priori si cela l’indicibile contemporaneo: il terrore di restare indietro, di restare solo, di restare escluso.     

Eppure questo è proprio il momento per imporre una riflessione altra. Adesso, che ancora un po’ di memoria è rimasta; che è ancora possibile, per una considerevole fetta dalla popolazione, paragonare la nostra vita di prima con quella di adesso, vedere cosa abbiamo guadagnato e cosa abbiamo perduto. Adesso che la tecnobolla dell’intelligenza artificiale è ancora in costruzione. Adesso che stiamo per vedere come l’IA ridurrà ancora di più la capacità di pensiero dei giovani, come li subordinerà ulteriormente diventando l’ennesima cosa senza cui non possiamo vivere. Adesso che nessuno di noi ha più tempo per nulla perché tutti abbiamo creduto alla favola bella della tecnologia che ti fa risparmiare tempo. È adesso che servirebbe una riflessione sulla liceità (giuristi perché silete?) di un mondo dove il titolo di accesso alla cittadinanza sta diventando il possesso di uno strumento privato e basato su reti di funzionamento privato. Non è forse vero che senza lo smartphone e le sue infinite app in alcuni ambiti della vita non puoi curarti, pagare qualcosa alla posta, cenare fuori, interagire con la pubblica amministrazione, posteggiare eccetera. Quando abbiamo votato per tutto questo? Forse il referendum era l’iscrizione almeno a un social e non lo avevamo capito?

Servirebbe una riflessione che riportasse una ragione minima tra gli uomini. Capire che è una argomentazione falsa e ignobile giustificare con la motivazione della telemedicina o con il ruolo di assistente scientifica o di gestione delle emergenze un’intelligenza artificiale diffusa tra gente che la userà per farsi telecomandare o procedere oltre nell’alienazione (più hikikomori per tutti!) giacché l’utilizzo selettivo professionale e l’immissione in un mercato di massa sono due discorsi ben diversi (in caso contrario vorrei poter liberamente acquistare un bazooka per il mio tempo libero). Bisognerebbe smettere di affermare (lo sento fare con mio stupore anche a persone intelligenti) che la tecnologia è uno strumento e dipende da come la si usa (il che nuovamente metterebbe in campo il bazooka: lo voglio funzionante e con munizioni ma solo per tenerlo in salotto, in fondo è solo uno strumento).

Qualcuno si è accorto che da qualche tempo si viene trattati sempre più paternalisticamente tranne quando dobbiamo accedere a consumi che aumenteranno la nostra dipendenza? Solo in quel caso i diritti dell’uomo e del cittadino tornano indiscutibili. Solo l’atto libero di decidere di farsi mettere liberamente il guinzaglio è sacro.   

Bisognerebbe chiedersi perché proprio per la tecnologia non si usi il metodo che ognuno di noi usa per le altre cose della vita: riflettere sul rapporto tra costi e benefici, riflettere su ciò che è adeguato a me, ciò che mi serve, e se ogni cosa è adatta per ogni età della vita. Provandoci si scoprirebbe che lo facciamo più o meno per tutto tranne che per ciò che ci propone il consumismo tecnologico contemporaneo. Già solo se capissimo questo percepiremmo l’intoccabilità, ciò che è sacro per noi. Avremmo dunque guadagnato la possibilità di un’estensione del dominio della nostra ragione oppure, in caso si abbia paura di farlo, perlomeno un incontro (con le distanze che si debbono al nume) con il nostro nuovo dio.

Adesso, dopo questo articolo, attendo speranzoso che qualcuno mi dia del luddista. È poca cosa lo so, ma sarebbe comunque un inizio.