AL LAVORO. IN MEMORIAM
XIX. Le infrazioni alla disciplina e gli atti che perturbino il normale andamento dell’azienda, commessi dai prenditori di lavoro, sono puniti, secondo la gravità della mancanza, con la multa, con la sospensione dal lavoro e, per i casi più gravi, col licenziamento immediato senza indennità. Saranno specificati i casi in cui l’imprenditore può infliggere la multa o la sospensione o il licenziamento immediato senza indennità... (Carta del lavoro del 1927, manifesto politico del regime fascista, articolo 19)
Di riformare il lavoro non se ne parla. Le politiche attive del lavoro e il ritornello della formazione continua come panacea sembrano scomparse dalla cassetta degli attrezzi dei nostri politici. Quanto alla flessibilità, oggi sembra davvero un miracolo praticarla in una società in cui spostarsi di regione già appare un atto di coraggio (di che colore è questa regione? E quella accanto? Cosa si può fare e cosa no?) e in cui i nuclei familiari cercano di restare uniti per rispondere all’urgente bisogno di sicurezza amplificato dalla società pandemica.
La recente tesi di Ricolfi, espressa in un volume della fine del 2019, appare già lontanissima. La leggenda ricolfiana della società che vive una “lenta argentinizzazione”, talmente lenta da non provocare nessuna reazione; “La società signorile di massa” che vede la gran parte della popolazione italiana vivere senza produrre reddito da lavoro grazie al patrimonio familiare ereditato, appare come una favola verso cui si prova nostalgia.
Viviamo una condizione in cui costruire un’identità lavorativa è diventato quasi impossibile e la gran parte delle energie sono spese per provare a resistere alla sempre più diffusa instabilità economica ed esistenziale. Il fantasma di David Graeber e del suo lavoro sui Bullshit jobs (“i lavori del cavolo”) in cui si delinea la mancanza di senso che affliggerebbe chi svolge un lavoro inutile e ne è tragicamente consapevole, lambisce persino lavori che erano considerati vocazionali come quello del docente, minacciato ormai dalla sua “evoluzione” in box tickers (barracaselle). Vi si potrebbero aggiungere tutti i lavori del settore della cultura, obiettivi privilegiati della politica dei lockdown.
Sullo sfondo, uno degli elementi centrali della dimensione comunitaria, cioè la costruzione del bene relazionale collettivo, si dissolve. Il senso di comunità è quasi ormai un miraggio nell’attuale processo di disgregazione del tessuto sociale sempre più veloce e ora incredibilmente accelerato dall’emergenza sanitaria. Da troppo tempo il lavoro è vissuto in una dimensione individuale e privata e non più sociale, nella consapevolezza che il tempo delle battaglie per i diritti è soltanto un ricordo e se il lavoro è un fatto privato, se non riguarda la collettività, la sua perdita non accade a noi, non ci riguarda “davvero”.
Dopo la riforma Biagi e il jobs act renziano ci ritroviamo adesso, a forza di decretazione d’urgenza, con un gran numero di lavoratori obbligati a esibire il green pass sul luogo di lavoro pena la sospensione dello stipendio insieme a multe salatissime e con la sola rassicurazione che, al momento, nessuno rischia il licenziamento. La sensazione che si ha è che lo stato di emergenza sia servito, coprendone le reali intenzioni, a peggiorare ulteriormente una condizione di già debole tutela dei lavoratori di interi settori senza che nessuno si sia preso alcuna responsabilità politica e in assenza di un dibattito serio sul mondo del lavoro.
Dunque la discriminazione, non provata dalle evidenze scientifiche, è ormai in atto e rende molto difficile puntare all’appartenenza di categoria per far valere i propri diritti (a fronte di un “noi” che si divide non in diverse categorie ma viene fessurato longitudinalmente in individui vaccinati e non vaccinati) come testimoniano le proteste dei portuali a Trieste e l’ulteriore crisi di rappresentatività dei sindacati.
Di qualche tempo fa la denuncia di un gruppo di lavoratori non vaccinati ai quali un’azienda del nord Italia ha imposto, per ragioni di sicurezza, l’utilizzo di una sede dislocata dal corpo centrale in mezzo a rottami ed escrementi di animali.
Un attacco di tale portata al diritto al lavoro (Il green pass per il cittadino consumatore non può paragonarsi a quello che riguarda e colpisce il lavoratore) può essere fronteggiato soltanto da gruppi di persone (e non soltanto categorie di lavoratori) uniti e coesi, capaci di sentire e condividere insieme gli elevati e ingiusti costi emotivi ed economici imposti dalla emergente società pandemica.
Oggi l’impossibilità di esercitare il diritto al lavoro ci mette di fronte ad un “noi” che abbiamo ignorato per troppo tempo e che reclama voce e posto nel mondo.